Francesco De Gregori, nella sua Il bandito e il campione, canta «due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta/ un’unica passione per la bicicletta/ un incrocio di destini in una strana storia / di cui nei giorni nostri si è persa la memoria».

La canzone racconta, in maniera romanzata, la leggendaria “amicizia” tra due personaggi nati a Novi Ligure alla fine dell’ottocento e saliti alla ribalta delle cronache del tempo: Costante Girardengo, stella del ciclismo italiano, e Sante Pollastri, criminale ricercato in tutta Europa. Questo strano gioco del fato, abile tessitore di tele stravaganti e inaspettate, che sta alla base del componimento del cantautore italiano e la fonte della storia che lega due dei personaggi più noti della Colombia degli anni ’80 ’90: Pablo e Andrés Escobar. Analogamente all’amicizia Giradengo-Pollastri, difatti, quasi nessuno ricorda che vent’anni fa moriva, sotto i colpi di arma da fuoco, uno dei più forti giocatori colombiani di sempre: Andrés Escobar Saldarriaga. Ucciso dal narcotraffico a causa di una cosa futile: un autogol.

Per raccontare questa storia però bisogna partire dall'Escobar più noto: Pablo. Nasce a Rionegro, comune facente parte del dipartimento di Antioquia, nel 1949. Già da adolescente comincia la sua scalata al potere tra le strade di Medellin, capoluogo del dipartimento. In poco tempo raggiunge la vetta divenendo il signore indiscusso del narcotraffico colombiano.

Corruzione e intimidazione sono il pane quotidiano del suo interregno. Il boss è temuto e allo stesso tempo amato dalla povera gente colombiana, alla quale costruisce scuole, campi da calcio, nuovi barrios e talvolta elargisce denaro in cambio di fedeltà, che rivede in lui un moderno, quanto erroneo, Robin Hood. Il boss è anche un fanatico di sport tanto che finanzia tutte le squadre di Medellin, tra le quali uno dei maggiori club calcistici dell’interna nazione: l’Atletico Nacional.

Intanto, la città dell’eterna primavera dà i natali anche all’altro protagonista della storia: Andrés Escobar. Nato nel 1967 da una famiglia borghese a Calasanz, quartiere nord-occidentale della città. Andrés si diploma al collegio Conrado González Mejía, ma la sua grande passione è il calcio. E a pallone il ragazzo ci sa giocare bene, infatti, non ancora ventenne, esordisce in prima squadra con la maglia dei Los Verdolagas, la squadra per cui fa il tifo fin da bambino. Andrés è un ragazzo gentile e riservato, dotato di un fisico slanciato, ottima tecnica di base e grande velocità (oltre ad essere uno specialista nei colpi di testa), che predilige uno stile di gioco essenziale. In breve diventa un idolo dei tifosi dell’Atletico Nacional che lo soprannominano El Caballero del Futbol (Il cavaliere del calcio) per la sua sportività e la sua correttezza sul rettangolo verde.

 

I Los Verdolagas, di cui Escobar è l’indiscusso leader difensivo, vincono nel 1989 la Copa Libertadores battendo ai rigori l’Olimpia di Asunción. La squadra di Medellin è la prima compagine colombiana a riuscire nell’impresa, schierando addirittura solo giocatori autoctoni. Il successo spalanca ai colombiani le porte dell’aereo che atterra a Tokyo dove si disputa annualmente la rinnovata Coppa Intercontinentale. Ad attenderli c’è la miglior squadra d’Europa: il Milan dei tre olandesi guidato da Arrigo Sacchi. I rossoneri sono considerati i favoriti, ma soffrono maledettamente una squadra che gioca accorta e attenta in trenta metri di campo e addormenta abilmente la partita. Escobar gioca splendidamente e guida la sua retroguardia con abilità da condottiero. La strenua resistenza colombiana viene piegata solo da una punizione di Alberigo Evani al 119’.

Sacchi dopo averlo visto in azione se n’è innamorato e lo porterebbe volentieri a Milanello. Andrés in Europa ci va, ma non al Milan bensì ai modesti svizzeri dello Young Boys. L’avventura nel vecchio continente di Escobar però non decolla e così dopo una sola stagione El Caballero torna al suo amato Atletico National.

Parallelamente alla sua ascesa nel club, Escobar fa il suo esordio in nazionale nel 1988. Il c.t. Francisco Maturana, che può vederlo in azione quotidianamente in quanto suo tecnico all’Atletico National, sa che di lui si può fidare e gli consegna le chiavi della difesa. Andrés gioca così il suo primo Mondiale nel 1990. La Colombia passa la prima fase come seconda miglior terza e viene eliminata agli ottavi dal sorprendente Camerun a causa di un pasticcio di Higuita. Le aspettative sui Cafeteros ai successivi Mondiali sono però ben diverse. A U.S.A. ’94 la nazionale di Maturana è considerata come una delle possibili sorprese; gli aruspici (sciamani colombiani), addirittura, la innalzano tra le favorite alla vittoria finale. Il coach, zonista convinto ma a cui piace anche il fraseggio, ha a disposizione una squadra formata da giovani talenti che finalmente sono sbocciati in tutto il loro valore affiancati da qualche leader storico, uno fra tutti il capitano, il Pibe, Carlos Valderrama. Il “Gullit biondo” è estroverso e istrionico. Trasforma la sua debolezza nella sua forza: la sua lentezza mette ancora più in risalto la sua classe cristallina che gli permette tocchi illuminanti per i compagni e dribbling funambolici.

 L’investitura è assegnata alla Colombia dopo che nel girone di qualificazione ha fatto strabuzzare gli occhi a tutto il mondo. All’epoca non c’era un girone unico come oggi, bensì due mini gironcini in cui venivano ripartite le diverse squadre (tranne il Cile, non partecipate poiché squalificato a causa dello scandalo Rojas). Nel primo, dove c’è la Colombia, sono sorteggiate Argentina, Paraguay e Perù. Solo la prima si qualifica matematicamente, la seconda è costretta agli spareggi. L’Albiceleste, vicecampione mondiale in carica, è considerata la favorita, ma a passare per prima è la formazione di Maturana. I numeri sono da capogiro: 10 punti fatti su 12 disponibili, 0 sconfitte, 13 gol segnati e solo 2 subiti. Oltre ai numeri, a rafforzare la candidatura colombiana c’è l’ultima partita del girone giocata al Estadio Monumental di Buenos Aires. Lo scontro è decisivo per le sorti delle due nazionali: chi vince, stacca il pass per U.S.A. ’94. È la più roboante vittoria della storia dei Cafeteros; cinque sculacciate ai più quotati avversari che vengono scherniti dal loro stesso pubblico.

 La Colombia ormai è una squadra solida che sa stare bene in campo. In porta, lo “scorpione” Higuita ha lasciato il posto, per cause di forza maggiore (è in galera), al più assennato Oscar Cordoba; l’attacco è formato da una coppia di brevilinei agili e scattati che gioca in Europa: El Tren Adolfo Valencia, bomber del Bayern Monaco, e Faustino Asprilla, idolo dei tifosi parmensi; il centrocampo è, invece, il regno di capitan Carlos Valderrama, coadiuvato sulla fascia dall’ala Freddy Rincon; la difesa, infine, è la zona dove comanda l’altro leader della squadra, quello silenzioso, agli antipodi con il Pibe, Andrés Escobar.

Il girone in cui sono collocati Escobar e compagni alla rassegna iridata non è proibitivo: solo la Romania può creare qualche grattacapo, Stati Uniti e Svizzera non sembrano avversari irresistibili. In Colombia le scommesse clandestine brulicano e molte persone puntano valanghe di pesos sul passaggio del turno. Il problema è in che modo la nazionale arriva negli States. Franklin D. Roosvelt affermava: «L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura», ed è proprio quello lo stato emotivo in cui si trovano i giocatori.

Infatti, Pablo Escobar, nel 1991, si era spontaneamente consegnato alla polizia locale, per evitare ripercussioni personali ai suoi danni da parte del cartello rivale e temendo l’estradizione negli Stati Uniti. Come ricompensa per questo suo “nobile” gesto gli fu permesso di costruirsi una sua prigione personale, che più che un carcere aveva le sembianze di un albergo di lusso, La Catredal. Al suo interno il narcotrafficante riceveva spesso visite, ma su tutte ne fece scalpore una: quella della nazionale, che improvvisò una partitella davanti a quello che probabilmente era il loro primo tifoso nonché protettore. La vita del boss però non dura a lungo. Il 2 dicembre 1993, dopo essere fuggito dalla sua prigione dorata ed essere tornato a casa, Escobar viene ucciso mentre corre trafelato tra i tetti di Medellin. Come dopo aver scosso un alveare: questa è la situazione in cui il narcotraffico, e di rimbalzo tutta la Colombia, piomba dopo la morte del suo despota. Il cartello di Medellin si spacca e il mercato della cocaina va appannaggio di quello di Calì.

I Cafeteros diventano così la speranza di un intero paese, la pressione è fortissima. I giocatori inevitabilmente la accolgono dentro di loro. Ci vorrebbe una vittoria per rasserenare l’ambiente. La prima partita del girone vede la nazionale sudamericana scontrarsi a Pasadena contro gli avversari più probanti: i rumeni. La Colombia è più forte, ma tra i rivali gioca il “Maradona dei Carpazi”, al secolo Gheorghe Hagi. E quando il “Maradona dei Carpazi” è in giornata non c’è né per nessuno. Serve due cioccolatini a Raducioiu e suggella la vittoria con un sinistro dolce e mortifero dallo spigolo sinistro dell’area. 3-1 per la Romania è il verdetto finale. Come dentro le sabbie mobili, più ci si muove, più si ha paura, più in fretta si affonda. E questa nazionale adesso è dentro un girone dantesco. In patria la stampa, che fino allora aveva glorificato la squadra, adesso la attacca ferocemente e rabbiosamente. Viene trovato il colpevole in Gabriel Gomez, accusato di giocare solo perché favorito di Maturana. Ad avvalorare la tesi, continuano i giornalisti, vi è il fatto che il vice del commissario tecnico è il fratello del giocatore. Alle ore 11 del 22 giugno 1994, cinque ore prima della decisiva sfida contro gli Stati Uniti, giunge in hotel un fax anonimo: «Se Gomez gioca, faremo saltare in aria la sua casa e quella del c.t. Maturana». L’allenatore riunisce la squadra e comunica la sua decisione di estromettere il centrocampista, che se ne torna distrutto in Colombia.

 

I Cafeteros partono con i favori del pronostico, ma al 34’ ecco accadere l’impensabile. Harkes spinge a sinistra e crossa senza troppe pretese al centro; posizionato sul dischetto Escobar si lancia in spaccata per interrompere l’azione, ma il suo intervento acrobatico indirizza la sfera in porta, proprio quando Cordoba sta compiendo i primi passi per l’uscita. 1-0 per gli U.S.A.. L’incubo è ormai un vampiro che si sta abbeverando con il sangue dei colombiani. Questi sono troppo scossi ed esangui per reagire e Stewart in contropiede al 52’ pone la pietra tombale sul match e sull’avventura mondiale dei sudamericani (che segneranno l’inutile 2-1 con Valencia nel recupero). La Colombia, da protagonista annunciata, è già fuori. Pleonastica è la vittoria sulla Svizzera nell’ultimo incontro.

Tacciono tutti, dall’estroverso Valderrama ad Asprilla; soffrono maledettamente, ma più di tutti a struggersi è Escobar, considerato dai media come uno dei maggiori colpevoli della disfatta in terra statunitense. Nonostante gli venga sconsigliato di tornare in patria Andrés decide che per staccare la spina la cosa migliore sia il ritorno in Colombia. Arrivato nella natia Medellin El Caballero scrive un articolo con i toni che gli competono: pacati e signorili, come quando gioca a pallone. Al suo interno incide una frase che continua a frullargli in testa: «La vida no termina aqui» (La vita non finisce qui). Il destino, però, sa essere baro e crudele, e la permanenza terrena di Escobar giunge alla fine poco dopo: il 2 luglio 1994. Andrés porta la fidanzata (altre fonti aggiungono con altri amici/amiche) in uno dei migliori ristoranti della città: El Indio. Nota però che ci sono alcuni individui che continuano a fissarli e così cena in fretta e decide di andarsene. Uscito al parcheggio, la situazione peggiora, perché a quelli se ne aggiungono altri. Si accende una discussione ricca di insulti che hanno come tema principale il suo autogol. Alla fine Escobar pone fine al diverbio apprestandosi a salire in auto, ma un’ex guardia, facente parte del gruppo paramilitare Pepes (Popolo perseguitato da Escobar), Humerto Muñoz Castro, lo fredda svuotandogli addosso i dodici colpi della sua mitraglietta. Durante l’efferato omicidio l’uomo accompagna il gesto ululando: «Grazie per l’autogol!!!» (secondo la fidanzata, invece, urla come nelle telecronache folcloristiche sudamericane la parola «Goool!!!»). Grazie all’aiuto di numerosi testimoni l’omicida viene subito identificato e arrestato. Condannato a 43 anni e 5 mesi di reclusione viene liberato nel 2005 per buona condotta.

La Colombia intanto è distrutta dal dolore e ai funerali di Andrés partecipano migliaia di persone, tra cui il presidente della Repubblica, ma ormai si è superato il limite. Coach Maturana ringhia rabbiosamente: «Questo paese è un manicomio permanente», mentre il fratello del boss Escobar sentenzia: «Se Pablo fosse stato ancora vivo, Andrés non sarebbe stato ammazzato come un cane». Le indagini ufficiali sull’omicidio si concludono con parecchi dubbi e tante ombre. Come matrice del gesto non viene confermata la tesi delle numerose scommesse clandestine andate in malora a causa dell’autogol; ma troppi sono gli indizi che portano indiscutibilmente ad affermare ciò. La federazione colombiana almeno apparentemente dopo quest’avvenimento decide di dare un taglio  col narcotraffico e in un paio di anni riesce a “ripulire” l'immagine del calcio. Ma, come ha detto Maturana, perché avvenisse questo cambiamento è dovuto accadere questo e «per tutti ha pagato il più bravo, quello che per doti umane, calcistiche, per risorse era destinato ad essere per sempre un leader».

Per un certo periodo nessuno se l’è sentita di indossare in nazionale la maglia con il numero di Escobar. Questo perché, come vuole il destino, solo un calciatore degno di continuare questa storia avrebbe potuto vestire la maglia numero 2 del Caballero. Uno con una certa caratura morale . Ancora un calciatore che ci riporta alla storia di questi due uomini: Ivan Ramiro Cordoba, nato a Rionegro e grande fan del cavalleresco Andrés.