«Ormai nel calcio non esistono più le bandiere». Alzi la mano chi non abbia pensato o espresso questa frase dopo l’ultimo acquisto shock della Juventus: Gonzalo Higuain. “El Pipita”, ex giocatore simbolo del Napoli, è però solo l’ultimo di una folta schiera di calciatori che hanno abbandonato la propria squadra per arrivare ai successi (e tante volte anche allo stipendio) desiderati. Francesco Totti è la classica eccezione che conferma la regola. Ormai, in un calcio tramutato da sport a business, l’appartenenza alla maglia è divenuta sempre più un concetto sbiadito e dal cattivo gusto retrò.
Un concetto che, invece, sarebbe stato considerato quasi un comandamento biblico dal protagonista della nostra storia, una storia allo stesso tempo romantica e tragica che ha avuto luogo in Uruguay tanti anni fa, all’inizio del XX secolo, quando il calcio era poco più che un semplice gioco.
Se l’Inghilterra è considerata la patria nativa del calcio, l’Uruguay è da considerarsi – a tutti gli effetti – la prima grande nazionale della storia del calcio. I primi a vincere un Mondiale, i primi a vincere l’oro olimpico, i primi a vincere il Campeonato Sudamericano (ora noto ai più come Copa America): dalla metà degli anni ’10 fino agli inizi degli anni ’30 battere gli uruguaiani è veramente un’impresa. Un paese che conta meno abitanti della Lombardia, ma in grado di generare decine di grandi talenti. Talenti che di solito vanno a rimpinguare le file delle varie squadre di Montevideo, dato che la capitale è la sede di quasi tutte le squadre partecipanti al campionato di Primera Division (Peñarol e Nacional su tutte).
Uno dei migliori prospetti di quegli anni è Abdon Porte, nato nel 1893 a Libertad, paese a una manciata di chilometri da Montevideo. Il giovane Abdon è il classico figlio dell’Uruguay di quel tempo; quasi totalmente privo d’istruzione scolastica, il calcio rappresenta per lui l’unica via percorribile per migliorare la propria condizione di vita. E a pallone Porte ci sa proprio fare. Alto, potente, carismatico, dotato di un portentoso colpo di testa, Abdon attira subito molte attenzioni su di sé. Un centromediano con quelle caratteristiche, infatti, fa gola a molti club; così, dopo solo due anni di apprendistato in squadre minori (Colon e Libertad), per Porte si aprono le porte di uno dei migliori club della nazione: il Nacional.
In breve tempo l’Indio (soprannome attribuitogli per via dei suoi tratti somatici) diventa uno degli idoli dei tifosi tricolores, che dagli spalti del Gran Parque Central inneggiano a gran voce il suo nome. Sono anni magici per Porte, che da capitano guida i compagni alla vittoria di quattro campionati uruguaiani (1912, 1915, 1916, 1917), 4 Copa Competencia (1912, 1913, 1914, 1915) e 2 Tie Cup (1913, 1915), uno dei primi tornei con squadre provenienti da diverse nazioni. Le straordinarie prestazioni con la maglia del Nacional permettono ad Abdon di conquistarsi anche un posto in nazionale. Con la maglia della Celeste, però,il rapporto non è lo stesso che con quella del suo amato club. Il suo ruolo all’interno della nazionale è quello del semplice comprimario. Infatti, pur partecipando alla vittoriosa spedizione uruguaiana del Campeonato Sudamericano 1917, l’Indio non viene mai utilizzato dal commissario tecnico Ramon Platero. Per lui le partite con la nazionale rappresentano solo un piccolo intermezzo tra due match del suo Nacional. Amato dai dirigenti e dai tifosi sia per le sue capacità sportive sia per quelle umane, Abdon ricambia fedelmente il sentimento, tanto da considerare il club la sua seconda famiglia. Un legame così forte che porta Abdon a ripetere più volte ai compagni un preoccupante monito: «Il giorno in cui non giocherò più, mi sparerò un colpo al Parque». Nessuno però lo prende troppo sul serio, anche perché l’Indio è la colonna della squadra che ha appena vinto il campionato.
Ma il tempo e il destino sanno essere tiranni e beffardi, soprattutto su chi fa della perfezione fisica l’elemento chiave delle proprie prestazioni. La dirigenza del Nacional, infatti, intravedendo un leggero cedimento nel rendimento del suo capitano, decide di puntare per la stagione 1918 sul giovane Alfredo Zibechi, centrocampista del Montevideo Wanderers, relegando Porte al ruolo di riserva. In un’epoca in cui le sostituzioni ancora non sono consentite, però, fare la riserva significa guardare giocare i propri compagni dalla tribuna. L’Indio entra così in una profonda crisi depressiva. Lui, il capitano, l’emblema del Nacional, non può sopportare di dover assistere inerme alle battaglie domenicali della squadra.
Il 4 marzo 1918 gli viene però concessa un’occasione. In programma c’è l’incontro di campionato tra il Nacional e il Charley Solferino, squadra che naviga nei bassifondi della classifica,e il suo nome torna finalmente nell’elenco dei titolari. Porte sfrutta al meglio l’opportunità concessagli, guidando i compagni alla vittoria per 3 a 1. La sera, come consuetudine dopo i successi, i giocatori dei tricolores si danno appuntamento in sede per festeggiare. L’Indio passa la serata in compagnia, sereno come ai vecchi tempi. Terminata la festa, però, invece di rincasare si dirige verso lo stadio puntando il cerchio di centrocampo. Lì, immerso nel suo habitat naturale, Abdon Porte decide che è arrivato il momento di farla finita. Un colpo solo, al cuore, il cuore ferito di un innamorato che ha visto la sua amata voltargli le spalle. Quando il mattino seguente il custode del Parque passa per la sua quotidiana perlustrazione lo trova così, riverso a terra in una pozza di sangue. Stretta tra le mani serrate c’è ancora la pistola, ma anche due biglietti: uno per l’anziana madre e uno per il presidente del club, José María Delgado. Due foglietti di carta in cui Abdon si scusa per l’estremo gesto e chiede di poter essere seppellito nel Cementerio de la Tejaa fiancodei fratelli Bolivar e Carlitos Cespedes, leggendari calciatori del Nacional morti di vaiolo nel 1905.
La notizia della morte di Porte getta il calcio uruguaiano, e in particolare il mondo tricolores, in preda ad un profondo sconforto. Uno sconforto dovuto al fatto di non essere riusciti a capire veramente un ragazzo capace di amare fino alla completa simbiosi il suo club di appartenenza. Un sentimento che lo accomuna ancora oggi alla franga più calda dei tifosi del Nacional, anche loro sempre fedeli al club. Non è quindi un caso che sia stato deciso di intitolare il loro settore all’Indio, e non è un caso che durante ogni partita da quel settore campeggi sempre fiero lo striscione “Por la sangre de Abdon” (“Per il sangue di Abdon”).
Sono passati quasi cento anni dalla malinconica storia di Abdon Porte. Un periodo lungo che ha visto il calcio mutare e diventare qualcosa di diverso, più ricco, più impomatato, ma anche meno nobile e passionale. Continuando con questo ritmo, inseguendo spasmodicamente la filosofia del trionfo imprescindibile, in breve tempo si estinguerà definitivamente quella prerogativa basilare che ha fatto innamorare del calcio milioni di tifosi: il sentimento. Sarà (forse) allora che ci guarderemo indietro ricordando con nostalgia il tempo in cui potevano ancora esistere calciatori che considerassero la propria squadra “Mes que un club”.