Monaco di Baviera, Germania Ovest, 7 luglio 1974, ore 16.00, finale dei Mondiali di calcio. Sul prato dell’Olympiastadion, davanti a più di 75 mila persone in visibilio, i padroni di casa della Germania sfidano la quotata e temibile Olanda del calcio totale.
La diretta mondiale comincia mentre le due formazioni si apprestano a calcare il terreno di gioco guidate dall’arbitro britannico Jack Taylor. Le riprese dall’alto passano in rassegna tutti e ventidue i protagonisti che si addentrano nell’arena e si dispongono per il cerimoniale pre-partita. Prima le autorità, guidate dai due rispettivi capitani Beckenbauer e Cruijff, stringono le mani a tutti i giocatori, poi la banda intona i due inni nazionali e infine arriva il canonico momento del lancio della monetina per capire chi darà il via alle ostilità.
È il classico protocollo, niente è andato storto. Gli occhi dei più attenti, però, hanno notato qualcosa di strano mentre i calciatori olandesi vengono ripresi. La maglia del capitano Johan Cruijff è diversa dalle altre, ha una strisca orizzontale nera in meno sulle spalle. I più pensano ad un banale errore di cucitura, invece i più maligni cominciano a pensare a qualche sinistra trama. Il problema è che a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. La nebulosa storia di quella strisca mancante, infatti, ha inizio un centinaio di chilometri fuori dalla capitale della Baviera nel lontano 1948.
Ad Herzogenaurach, un piccolo paese facente parte del land bavarese e diviso in due dal fiume Aurach, viveva durante i primi anni del ‘900 un calzolaio: Christoph Von Wilhelm Dassler. Due dei suoi figli, Adolf detto “Adi” e Rudolf, seguirono le sue orme e nel 1924 fondarono la loro fabbrica di scarpe: la Gebrüder Dassler Schuhfabrik (fabbrica di scarpe fratelli Dassler).
Il loro successo fu immediato e in poco tempo divennero il punto di riferimento per le calzature sportive in tutta la Germania. I due fratelli erano molto diversi nel carattere: Adolf era molto introverso e pensava solamente al miglioramento della qualità dei suoi prodotti, mentre Rudolf aveva come chiodo fisso l’area commerciale. Inizialmente questa dicotomia fece il bene dell’azienda che raggiunse il culmine di popolarità nel 1936, quando Jesse Owens vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino indossando scarpe della Gebrüder Dassler Schuhfabrik.
Lentamente, però, gli attriti tra Adolf e Rudolf si facevano più forti. Entrambi si erano iscritti nel 1933 al partito Nazista (d’altro canto, per lavorare nel campo sportivo durante il regime di Hitler, dove veniva riversata la maggior parte della propaganda, era necessario almeno simpatizzare per il partito), ma solo Rudolf ne era un fervente sostenitore. Così, mentre l’ingresso in azienda delle due rispettive mogli aveva creato nuove e importati divisioni, allo scoppio del secondo conflitto mondiale si arrivò al punto di non ritorno. La fabbrica fu riconvertita e cominciò a creare bazooka per l’esercito del Reich. Alla sua guida rimase Adolf, che fu esentato dalla leva, mentre Rudolf venne spedito al fronte (esattamente in Polonia). Il maggiore dei due fratelli Dassler rimase molto deluso dalla differenza di trattamento, ma le cose per lui dovevano ancora peggiorare. Infatti, a guerra conclusa, gli Alleati decisero di non smantellare la fabbrica e di lasciare che Adolf continuasse a produrre scarpe; Rudolf, invece, fu imprigionato per un anno con l’accusa di aver fatto parte delle SS. Ormai la frattura si era fatta insanabile, anche perché Rudolf accusò il fratello di averlo tradito e di averlo fatto incarcerare di proposito. Quando questi uscì dalla prigione, entrambi i fratelli Dassler sapevano che non avrebbero mai più lavorato insieme.
Infatti, Rudolf passò sull’altra sponda del fiume Aurach per fondare una nuova fabbrica di scarpe: la RUDA (che diventerà in seguito PUMA), dall’unione delle iniziali del suo nome e del suo cognome. Lo stesso processo fu eseguito da suo fratello Adolf, che chiamò la sua azienda ADIDAS. Ebbe così inizio uno scontro tra titani che, a suon di screzi, si spartirono il mercato sportivo mondiale fino all’avvento di Nike e Reebok nei decenni successivi. Il primo passo falso nella corsa all’oro delle sponsorizzazioni lo commise Rudolf quando litigò con il commissario tecnico della Germania Ovest Sepp Herberger, che vincerà un incredibile quanto impensato Mondiale nel ’54. Divise e calzature della nazionale furono tutte griffate dall’Adidas, che divenne così il marchio alfa nel mercato sportivo di tutto il mondo. Ad aggravare l’errore di Rudolf fu il fatto che il mondo stava ormai cominciando a vedere lo sport come un business dove immettere una quantità astronomica di denaro e quindi sbagli e illuminazioni andavano a creare dislivelli economici importanti. Altro colpo di genio dell’Adidas fu quello di regalare ad un vasto numero atleti delle Olimpiadi del 1956, organizzate a Melbourne, i propri prodotti in modo da fidelizzarli (all’epoca, infatti, gli sportivi dovevano ancora comprarsi le proprie attrezzature, da qui l’astuzia dell’Adidas).
Il predominio in campo sportivo dell’azienda di Adolf era quindi ormai un dato di fatto; ma la Puma crebbe anch’essa molto in quegli anni, nonostante tutto. Se l’Adidas aveva il predominio sulle divise delle maggiori squadre di calcio del mondo, la Puma decise di puntare sugli scarpini accaparrandosi i piedi dei calciatori più forti. Incredibile fu la vicenda di Pelé. Poco prima dei Mondiali del 1970 i due nuovi proprietari di Adidas e Puma, Horst e Armin Dassler (i figli di Adolf e Rudolf), stipularono un patto di non belligeranza: nessuno dei due avrebbe offerto un contratto di sponsorizzazione alla “perla nera”. Ovviamente il patto non fu rispettato. Armin incontrò l’asso brasiliano e stipulò con lui un contratto di esclusiva per i successivi quattro anni in cui a “O Rei” sarebbero andati 125.000 dollari annuali più il 10% in commissioni per ogni paio di scarpe vendute con il suo nome. Inoltre, Pelé, prima di ogni partita, avrebbe dovuto chiedere al direttore di gara il permesso di fermarsi un attimo per allacciarsi le scarpe; così, mentre lui con molta calma si sarebbe apprestato a sistemare i ferri del mestiere, le telecamere avrebbero zoomato sulle sue scarpe Puma facendole fare il giro del mondo.
Arriviamo così di nuovo a quel pomeriggio estivo del 1974. Ai Mondiali di Germania accade il solito leitmotiv di quegli anni. L’Adidas si accaparra le nazionali maggiormente accreditate al successo finale: l’ospitante Germania Ovest, l’Olanda e l’Italia, finalista del torneo precedente; mentre la Puma punta tutto sulla più grande stella di tutta la kermesse: Johan Cruijff. Il problema però sorge subito spontaneo ad Armin Dassler: che danno d’immagine avrà la sua azienda se il proprio atleta simbolo indosserà magliette della marca rivale? Come fare per evitare la rovina mediatica?
La scelta gli appare subito ovvia (anche perché lo sgarbo al parente antipatico è sempre quello che dà più godimento): Cruijff non indosserà materiale firmato Adidas durante tutta la manifestazione iridata. Così su ogni completo da gioco del “Pelé bianco” viene scucita una delle tre strisce simbolo del brand Adidas e ogni sua tuta viene griffata Puma. Insomma, piccoli accorgimenti per evitare figuracce mondiali che sono rimaste per sempre nella storia nascosta del calcio. Anche perché alla fine, a dispetto di quella lite familiare, ciò che hanno ricordato per sempre di tutti gli appassionati, oltre al risultato finale e al gioco fenomenale proposto dai tulipani, è stato il numero di maglia del “Profeta del gol”. Infatti, mentre tutti i suoi compagni portavano sulle spalle un numero predefinito in base alla posizione del loro cognome sull’alfabeto, a lui era permesso di indossare il suo numero distintivo: quel 14 che lo accompagnerà per tutta la carriera e diventerà un archetipo per tutti i suoi fans.