Continua il viaggio di Sportallarovescia all'interno delle rivendicazioni del calcio femminile. Dopo l'intervista a Martina Rosucci, centrocampista del Brescia e della nazionale, oggi ne parliamo con Katia Serra, ex-calciatrice, ora responsabile del "Settore Calcio Femminile" dell'AIC (Associazione Italiana Calciatori).

Cosa è cambiato ad oggi da quanto è uscita pubblicamente la dichiarazione di Belloli "basta dare soldi a queste quattro lesbiche"?
L'ambiente del calcio femminile ha preso consapevolezza prima di tutto che non era più accettabile che Belloli fosse il presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Ci sono state molte proteste e reazioni e bisogna sottolineare come il suo allontanamento fosse il nostro obiettivo primario, però solo da un punto di vista cronologico. In realtà il calcio femminile ha un bisogno fondamentale di darsi una propria struttura autonoma e centralizzata. Questo è il nostro vero obiettivo.
E' da evidenziare che la finale di Coppa Italia tra Brescia e Tavagnacco si è giocata, non principalmente perchè è stato allontanato Belloli, ma solamente perchè in una riunione in Federcalcio Damiano Tommasi  (Presidente dell'AIC) e Renzo Ulivieri (Presidente dell'AIAC) sono riusciti ad ottenere un'importante apertura ed impegno da parte di Tavecchio.

In cosa consiste questa apertura?
Il calcio femminile ha un problema strutturale, che va oltre le dichiarazioni di Belloli. La promessa di Tavecchio riguarda appunto un reale cambiamento della situazione.
La novità fondamentale rispetto agli anni passati è che le componenti tecniche (Aic e Aiac) e le tutte le società di calcio femminili hanno presentato un documento comune volto alla realizzazione di quanto promesso. Si tratta di un documento, che tiene conto dell'ordinamento federale, pensato per essere sistemico, fattibile, ma che ad oggi vede ancora delle resistenze all'interno della Federcalcio.
Il documento è ancora al vaglio degli uffici legali della Figc, noi ci siamo date come deadline  il 30 giugno, in modo tale che le promesse politiche possano diventare realtà già dalla prossima stagione. Se entro quella data non sarà cambiato nulla, ci saranno altre forme di proteste fino ad arrivare al blocco dei campionati.

Quali sono i punti cardine di questo documento?
Inanzitutto il riconoscimento dell'autonomia del calcio femminile con l'individuazione di poteri precisi e garanzie di risorse economiche – a partire dai contributi Uefa e Fifa – per creare un sistema di coordinamento centralizzato dell'attività che poi si ramifichi a livello territoriale. Attualmente il nostro mondo è frammentato, mancano delle linee guida progettuali comuni. Questa situazione è anche la conseguenza di una scelta federale del 20 giugno 2011 che ha declassato il calcio femminile da divisione a dipartimento, facendogli perdere quella minima autonomia economica e decisionale, che prima aveva. Questa decisione vide l'opposizione solamente delle componenti tecniche, mentre le società femminili allora votarono a favore ignare delle negative conseguenze. La nostra lotta è partita ormai da tanti anni, molto prima delle dichiarazioni di Belloli. Essere riusciti a mettere d'accordo e unire club e componenti tecniche è il primo risultato importante ottenuto.
La nostra richiesta di autonomia non significa separazione o isolamento dal resto del mondo del calcio, riteniamo fondamentale e imprescindibile il coinvolgimento di quello maschile per lo sviluppo di quello femminile. In merito, alcuni piccoli importanti passi sono stati conquistati nelle ultime settimane: l'obbligo federale per i club professionisti maschili di serie A e B di tesserare 20 bambine under 12 e la deroga, o per l'acquisizione del titolo sportivo delle società femminili o l'acquisizione di quote di partecipazione delle stesse per creare 
delle sinergie in campo promozionale.

Altro tema legato allo sport femminile è quello del passaggio al professionismo. Attualmente tutte le atlete sono considerate dilettanti. E' anche questa una rivendicazione del calcio femminile?
Sì, anche se per il calcio femminile al momento è un obiettivo importante, ma successivo. Prima abbiamo bisogno di una riforma strutturale del sistema. Una volta ottenuta, allora possiamo parlare di professionismo. Per altre discipline sportive, invece i tempi sono maturi e questa rivendicazione è attuale. Ciò permetterebbe alle donne di rendere il loro essere atlete un'attività lavorativa. Questo è fondamentale per ottenere maggiori garanzie come il pagamento di contributi previdenziali e maggiori tutele assicurative. Altro aspetto fondamentale è che il passaggio al professionismo garantirebbe il diritto alla maternità, aspetto ora non previsto per le donne sportive. In altri paesi europei, invece ciò è già realtà. Purtroppo in Italia abbiamo una legge sul professionismo sportivo del 1981 che oramai è obsoleta, perché non tiene conto dei cambiamenti della nostra società. Il numero di donne che praticano sport è aumentato esponenzialmente rispetto a 30 anni fa, gli ottimi risultati che le donne ottengono vincendo titoli e medaglie olimpiche meritano garanzie maggiori.