di Pasquale Coccia - Alias - Il Manifesto 11/01/14
Sport. Mauro Valeri dell'Osservatorio sul razzismo parla delle misure intraprese per eliminare il problema dell’intolleranza. Gli esempi degli altri paesi europei
Negli ultimi mesi del 2013 numerose curve squadre di serie A sono state chiuse, per l’uso da parte degli ultrà di frasi razziste o discriminanti sul piano territoriale rivolti a tifosi o giocatori di una determinata area geografica. A campionato appena ripreso, abbiamo chiesto a Mauro Valeri, che dirige l’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio (Orac), se queste misure hanno sortito qualche effetto, se c’è spazio per una cultura antirazzista negli stadi o la partita è persa, e che cosa succede negli stadi europei dove giocano squadre di grande prestigio. Mauro Valeri, che insegna Sociologia delle relazioni etniche all’Università La Sapienza di Roma, ha pubblicato Black italians. Atleti neri in maglia azzurra (Edup,2005), Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano, (Donzelli 2010), Stare ai giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni (Odradek 2012).
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Perché negli stadi italiani si è arrivati a questo livello di intolleranza?
Il grande errore della sinistra è stato di sottovalutare il terreno dello sport, lo ha sempre inteso come “oppio dei popoli” una componente che c’è ed è condivisibile, ma sotto l’aspetto dei messaggi antirazzisti lo sport e il calcio in particolare sono stati sottovalutati, hanno rappresentato un terreno di investimento politico dei nazi-ultrà e dei boss delle curve, ai quali è stato lasciato campo libero, perciò hanno stabilito loro il terreno di confine del razzismo, manipolando i termini e attenuando i significati. A Roma, nel quartiere San Lorenzo, c’è un club di tifosi della Lazio costituito da aderenti a Forza Nuova, che espone alle finestre bandiere con evidenti simboli fascisti, ma nessuno si scandalizza. La sinistra non ha mai stabilito una linea di demarcazione su questo terreno, non ha mai tentato di individuare quali termini negli stadi sono espressione di razzismo. E’ rimasta prigioniera dei vecchi schemi, secondo cui l’azione e le parole razziste sono da considerarsi tali solo se espresse da gruppi di tifosi fascisti, ma nel corso del tempo sono state fatte proprie anche da tifoserie di sinistra. In tutta Europa, invece, la discriminazione avviene sul fatto, chiunque sia il protagonista, viene valutata l’azione non se il gruppo di tifosi o il singolo è di destra o di sinistra, esiste la responsabilità soggettiva.
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Che cosa ha prodotto questo vuoto?
L’assenza della sinistra sull’identificazione delle parole e dei gesti razzisti ha lasciato libertà alla destra, che ha spostato più in là il discrimine dei termini, sono passate tesi, fatte proprie dalla gran parte della stampa sportiva, secondo cui i “buu” o i versi della scimmia rivolti ai giocatori di colore rientravano nel diritto di libertà di pensiero dei tifosi o al massimo venivano considerati espressione di maleducazione, mai di razzismo. Non si è definito con chiarezza quali espressioni o parole rientravano negli sfottò tra i tifosi e quali erano espressioni di evidente razzismo. La sinistra deve avere più coraggio e proporre un codice di identificazione antirazzista, in questi anni le parole razziste e i gesti sono stati “deumanizzati” ed è stato permesso di tutto. Recentemente ho incontrato un gruppo di ragazzi che frequentano la curva della Lazio, abbiamo parlato di razzismo e di quello che può essere offensivo per i calciatori di colore, mi hanno detto che i “buu” allo stadio non li faranno più, ma semplicemente perché la società rischia la chiusura della curva o un’ammenda salata.
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Negli altri paesi europei vivono gli stessi problemi?
All’estero sono direttamente le squadre di calcio a farsi promotori di campagne antirazziste. Giocatori e tifosi del Liverpool insieme si sono incontrati e hanno individuato ciò che può essere razzista e va denunciato. Il Borussia Dortmund ha recentemente identificato ed espulso un tifoso che pronunciava frasi omofobe contro i calciatori avversari, a segnalarlo agli steward è stato il suo vicino di posto. Il West Ham, che notoriamente ha una tifoseria antisemita, ha individuato sei tifosi abbonati che durante una partita avevano pronunciato frasi razziste nei confronti dei giocatori avversari, identificati dagli steward sono stati espulsi dai loro club e le loro tessere sono state tracciate, non potranno più mettere piede allo stadio. In quegli stessi giorni anche alcuni ultrà della Lazio venivano accusati di frasi razziste, ma il presidente Lotito disse che si trattava semplicemente di ragazzi maleducati.
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Perché le squadre italiane non seguono il modello europeo?
In Italia la chiusura delle curve non ha sortito risultati, tutto è molto aleatorio, le società non si impegnano in prima persona con gli allenatori e i giocatori schierati in un una campagna antirazzista, come avviene all’estero dal Manchester United al Liverpool fino al Barcellona. Negli stadi italiani, pur essendoci il biglietto numerato, non sempre è possibile identificare il tifoso, perché spesso su quella sedia c’è un’altra persona arrivata prima, il titolare del posto si sistema lì vicino per non fare questioni. La tendenza delle istituzioni calcistiche è quella di sminuire l’accaduto, sminuire la discriminazione territoriale, che è alla base della decisione dei giudici sportivi di chiudere le curve, significa sminuire la discriminazione razziale. La chiusura delle curve avrebbe dovuto frantumare le tifoserie, invece le ha rese più compatte, ha accentuato il campanilismo e questo porta ad un aumento del business, dall’abbonamento allo stadio a quello alla tv della squadra di calcio. Mio figlio è un tifoso della Roma e va allo stadio, quando parliamo mi dice che è assolutamente necessario che la squadra abbia lo stadio di proprietà, ma che gli importa se la Roma ha lo stadio di proprietà no, non è un suo problema, eppure passano messaggi di questo genere che tendono a compattare i tifosi e ad alimentare il business. La chiusura delle curve in Italia deve avvenire per responsabilità soggettiva, ma le società non vogliono, perché non vogliono individuare i tifosi responsabili, in Inghilterra non chiudono mai le curve, il club non è ritenuto responsabile.
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La Juve ha mandato i bambini in curva al posto degli ultrà.
Quella di mandare i bambini nelle curve, interdette ai tifosi colpevoli di discriminazione territoriale, come ha fatto la Juventus, rappresenta una trovata che non risolve il problema. Lo stadio viene vissuto come il luogo dove sfogarsi, quei bambini riflettono la cultura sportiva dei loro genitori, se allo stadio sentono gli adulti dire “arbitro di merda” o “negro di merda” anche i bambini utilizzeranno quel linguaggio, come è avvenuto allo Juventus Stadium.
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I media possono svolgere un ruolo importante per una cultura sportiva dei tifosi?
In Italia manca uno spazio culturale nello sport e in particolare nel calcio, dove fare un‘approfondita riflessione antirazzista. A Sky, che detiene i diritti televisivi del campionato di calcio italiano e dei principali eventi calcistici come i mondiali, i telecronisti che un tempo facevano il commento della partita con tono distaccato, sono stati sostituiti dai commentatori tifosi, che durante la telecronaca fanno un tifo acceso e di parte. Tutto questo è deleterio.
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Dalla discriminazione razziale a quella dei gay in Russia. Che succederà alle prossime olimpiadi invernali di Sochi?
All’estero numerosi atleti hanno preso posizione sulla mancanza dei diritti dei gay in Russia con dichiarazioni esplicite, in Italia nessuno si è espresso, né gli atleti che parteciperanno a Sochi né i dirigenti delle federazioni sportive. C’è il silenzio assoluto, il problema non esiste. Che succederà se un atleta a seguito di una medaglia d’oro abbraccerà o bacerà il suo compagno di vita? Potrà farlo o rischia la galera, secondo la legge sui gay approvata dalla Duma? Ai mondiali di atletica tenutisi a Mosca ad agosto, un donna che gareggiava si era dipinta le unghie color arcobaleno, su sollecito delle autorità russe i dirigenti della federazione internazionale sono intervenuti e le hanno detto che non poteva, lei ha tinto le unghie di rosso, dietro quel gesto non vi era alcun significato politico