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Scozzesi, inglesi, biciclette e lavatrici
Mentre sto scrivendo questo pezzo gli scozzesi stanno decidendo del loro futuro, quando lo leggerete si conosceranno già i risultati dello storico referendum sull’indipendenza della Scozia.
Cominciò tutto lì, con quell’omino di ferro in maglia a pois che si faceva strada verso il Sestriere tra due ali di folla.
Lui, l’eroe solitario, il visionario, il coraggioso, il generoso solo contro tutti che faceva sognare l’Italia intera in quella afosa giornata estiva. Al traguardo sentivo di aver vinto anch’io.
A qualcuno succede a 6 anni, a qualcuno a 4, a me è successo a 3 anni. Cosa? Riuscire ad andare in bicicletta senza rotelle.
Quando parli di ciclismo e pensi ai sassi, alle pietre, pensi a quelle ben piantate a terra della Parigi Roubaix. Quelle che quando arrivi ti fanno male le mani e la schiena per le vibrazioni, quelle che ti costringono a passare sul bordo della strada e causano cadute e forature a ripetizione.
C’è uno sport che chi è abituato a considerare le strade e le piazze come specchio della situazione sociale ed economica del paese non dovrebbe mai sottovalutare. E’ lo sport che fino agli anni ’60 è stato il più popolare in Italia (sì, anche più del calcio), quello povero per antonomasia, quello della fatica: il ciclismo.
Il doping, a seconda di come lo guardi, ha diverse letture. Può essere una truffa, un business, l’unica rivincita, una scorciatoia, un rischio per la salute, insomma è un tema complesso, che cambia a seconda di chi è lo spettatore.
Volevamo segnalarvi un articolo estratto da Repubblica del giornalista Eugenio Capodacqua.