a cura di Polisportiva Tpo Bologna
Il fascino del pugilato si può riscontrare ovunque. Vive nelle palestre e nelle riunioni, ma vive anche nella nostra quotidianità, nel cinema, nell'arte, persino nella nostra lingua. Eppure il pugilato rimane come avvolto da un'aura di impermeabilità, come un qualcosa di tremendamente allettante, ma che allo stesso tempo incute timore. Una tentazione insomma. Qualcosa di talmente pericoloso da essere "bello", con la sua eleganza, il suo ritmo, la sua storia, la sua estetica. Le imprese epiche dei pugili rivivono attraverso gli atteggiamenti rispettosi e dolcemente solenni di chi li ricorda, sul ring come fuori dal ring. Perché quanto è stato importante il pugilato anche fuori dal ring! Pensiamo soltanto a personaggi come Muhammad Ali e a quanto il suo atteggiamento sia stato influente, immaginiamoci cosa volesse significare scegliere di essere condannati per renitenza alla leva negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam, oppure quanto possa aver influenzato l'opinione pubblica l'impegno di un campione del mondo dei pesi massimi per quanto riguardava i diritti degli afroamericani. Non si può sorvolare su quanto lo straordinario senso etico di questo sport abbia spinto personaggi come Nelson Mandela a esprimere proprio quel genere di considerazioni. E perché non pensare a Cuba, e a quanto Fidel Castro abbia preso il pugilato come esempio etico ed educativo a livello sportivo ma anche a livello politico e sociale. L'affetto e il rispetto di Fidel per questo sport hanno di fatto consegnato a Cuba uno straordinario ed indiscutibile motivo d'orgoglio riconosciuto a livello internazionale, vale a dire il pugilato più bello del mondo.
La verità è che il pugilato è sempre stato uno straordinario canale di riscatto sociale. Uno sport che nella sua evoluzione moderna e contemporanea nasce di fatto dal basso. E' forse questo che intimorisce la stragrande maggioranza della gente, la paura non solo dei pugni, ma anche di scoprirsi "inadatti", di rendersi conto di non possedere quella violenza innata, quella cattiveria o quel bisogno di riscatto necessari per poter anche soltanto avvicinarsi a un certo tipo di disciplina. E poi c'è la fatica, ci sono i sacrifici. Quelli sì che fanno veramente paura. Perché è tutto tremendamente vero, quanti sacrifici bisogna fare per diventare pugili, e allora al di là della vittoria agonistica in sé, il pugile costruisce e mantiene il suo fascino perché si ritrova, per una volta, a rappresentare la categoria "in vantaggio", e colui che risulta bisognoso e desideroso di riscatto sociale arriva ad essere una volta tanto rispettato, a volte addirittura "invidiato".
Ma resta comunque un dato di fatto. In quasi tutti i casi chi prova il pugilato se ne innamora e arriva a sviluppare quasi una sorta di dipendenza. Perché il pugilato è anche divertente, enigmatico, tremendamente difficile e stimolante, oltre a rappresentare uno straordinario esempio di socialità e ad avere un importante ruolo educativo.
Ci sono infatti tanti aspetti che conferiscono al pugile una consuetudine caratteriale riscontrabile nella maggioranza dei casi, e questa consuetudine è una sorta di misto di bontà d'animo, autocontrollo, correttezza, generosità. L'origine dell'abitudine ad un certo tipo di carattere la possiamo ricercare in concetti come coraggio, rispetto, sacrificio, ma anche nella simpatia o nell'autocritica. Di sicuro non solamente nella pura e semplice cattiveria, nella rabbia o nella vendetta.
Dando uno sguardo a quello che succede in Italia quando parliamo di boxe, pare che tutti questi bei concetti siano andati perduti o per lo meno dimenticati . In molte realtà tradizionali, infatti, si ha l'impressione che l'insegnamento del pugilato parta dalla fine piuttosto che dall'inizio, e cioè dall' induzione del proprio allievo all'annientamento dell'avversario. Ma prima di dover insegnare quello che invece caratterialmente spetterebbe al pugile sul ring in quanto espressione del proprio agonismo da un lato, e del superamento della paura dell'avversario stesso dall'altro, il maestro dovrebbe dapprima inserire l'allievo all'interno del contesto, abituarlo a un certo tipo di disciplina, dovrebbe "capirlo" e costruire un legame di complicità e fiducia, dovrebbe farlo innamorare di questo sport, infine, dovrebbe insegnargli il rispetto per l'avversario.
In Italia, entrando nel dettaglio, il pugilato dilettantistico viene vissuto come una catena di montaggio. Il pugile dilettante serve alla società di cui fa parte perché più pugili agonisti si tesserano, più la federazione paga. Più pugili si portano a una riunione e più la federazione paga. E più la federazione paga, più la società diventa prestigiosa. A quel punto i pugili quando si presentano alle riunioni vengono "messi in fila" angolo per angolo e mandati sul ring come se si stesse giocando a carte. In questo modo si manca di rispetto al coraggio del pugile, alla sua paura e alla sua passione.
Sul lato pratico mancare di rispetto a un pugile potrebbe tradursi nel non capire se l'allievo possa effettivamente essere pronto per affrontare un incontro. Spesso il clima di elevata competizione e agonismo tipico delle palestre tradizionali mette tanti allievi in uno stato di vergogna e timore nell'ammettere di non sentirsi ancora pronti, o magari di non considerarsi ancora "abbastanza coraggiosi".
Mancare di rispetto al pugilato, invece, si traduce nell'offrire uno spettacolo spesso indecente spingendo sul ring atleti che della nobile arte esprimono poco o nulla.
In poche parole agendo in questo modo si manca di rispetto dapprima all' atleta, che di certo non sale sul ring a rischiare di farsi male per soldi o quant'altro, dal momento che nonostante quanto detto, di soldi per il pugilato nel nostro paese non ce ne sono. Dulcis in fundo si manca di rispetto al pugilato stesso, in quanto si sminuisce la sua stessa natura etica ed estetica. Non a caso chi vuole fare carriera nella boxe dilettantistica in Italia (che sarebbe bene definire olimpica) si ritrova spesso costretto ad affiliarsi attraverso organi delle forze dell'ordine o dell'esercito, in quanto non c'è modo per la federazione di mantenere gli atleti e, da che mondo è mondo e al giorno d'oggi in particolare, ben poca gente può dedicarsi a tempo pieno alle proprie passioni.
Per quanto riguarda il pugilato professionistico la situazione è ancora più critica. Basti pensare che un premio per un titolo italiano consiste in poche migliaia di euro. Va da se allora ragionare su cosa spinga un pugile a intraprendere una carriera in cui dovrà combattere e vincere 50 60 incontri da dilettante e almeno 10 15 da professionista per guadagnare 3000 euro. Sicuramente un ruolo importante lo giocano la passione, il rispetto per la boxe o magari quella bontà d'animo e correttezza di cui si discuteva prima ma probabilmente nient'altro. Perché per un'attività così pericolosa e faticosa, e che soprattutto porta via tempo e denaro, può starci tutta la passione o la "dipendenza" del mondo, ma si può capire benissimo che, allo stesso tempo, di fronte a tanta poca consistenza, e di fronte a tanto poco rispetto, possa "passare la voglia". Tra queste righe non si vuole certo sentirsi tanto presuntuosi da poter offrire una alternativa valida per salvare il pugilato, ma sicuramente si vuole focalizzare il discorso su un sistema federale malato e fallimentare che, non si può negare, non ha costruito nulla di buono negli ultimi decenni.
Ma cosa succederebbe, invece, nel caso qualcuno volesse anche solo per fascino o curiosità avvicinarsi alla pratica di questo sport? E magari innamorarsene, come si diceva prima? Magari senza dover necessariamente o per forza dover avvertire il peso della competizione o dell'agonismo? Perché diciamocelo chiaramente, in tante realtà federali tradizionali la struttura sociale del "gruppo", inteso come la totalità degli iscritti, è decisamente piramidale, e un agonista gode sicuramente di un rispetto maggiore, talvolta di privilegi, come per esempio, quello di non pagare la quota di iscrizione.
Da queste considerazioni nasce un'idea di pugilato sano, che può contare su quei valori etici e sportivi di cui si parlava sopra. Che può contare sulla vera realizzazione della passione per questo sport di modo che questo possa evolversi come realtà conosciuta e praticata da tutti. Le palestre popolari, che potremmo anche definire palestre sociali, sono questo e tanto altro.
E' ora il momento di affrontare alcuni punti chiave per capire in cosa possa consistere un ipotetico concetto di pugilato popolare concreto.
Le recenti manifestazioni ed esibizioni di pugilato popolare, che negli ultimi anni e negli ultimi mesi in particolare si sono susseguite con sempre maggiore continuità, dimostrano per prima cosa che le realtà popolari possono offrire la possibilità di allenarsi a tutti i livelli, mettendo sul tavolo un tipo di didattica che non sia volta soltanto all'agonismo, ma soprattutto alla socialità e, di conseguenza, alla possibilità per tutti di allenarsi nello stesso modo. Sul lato pratico queste manifestazioni hanno offerto uno spettacolo magari meno incisivo dal punto di vista agonistico, ma senz'ombra di dubbio tecnicamente ed esteticamente di alto livello. Risiede infatti nel dialogo tra maestro ed allievo capire se sia il caso o meno di esibirsi, e non nell'obbligo agonistico di combattere in quanto pugile tesserato. Il clima rilassato delle riunioni offre l'occasione per scaricare la tensione e salire sul ring senza eccessive preoccupazioni. Ciò permette all'atleta di esibire un pugilato più rilassato ed attento senza dover per forza degenerare nella trance agonistica. In poche parole quello a cui un pubblico solitamente partecipe ed entusiasta assiste è un bel pugilato, a scapito delle fredde riunioni federali che sempre più spesso offrono uno spettacolo simile a una rissa da strada dove l'unico obbiettivo è la sopraffazione dell'avversario. Si tratterebbe quindi di provare proporre a tutti gli effetti un pugilato che possa essere veramente per tutti i gusti, in poche parole un "pugilato per tutti".
Un altro importante aspetto di cui tenere conto è la straordinaria capacità di gestione dimostrata dalle strutture organizzatrici di questi eventi. Compagni competenti a ricoprire ruoli di arbitraggio o di giudizio, e compagni competenti in campo sanitario (medici o infermieri) pronti ad intervenire in caso di ferite o colpi pesanti, un rischio che nel pugilato, per forza di cose, esiste. In poche parole in tutti questi casi si è data un'incredibile prova di capacità di autogestione, che non ha mai avuto nulla da invidiare alla normalità degli eventi federali in cui i soldi vengono investiti più per l'organizzazione dell'evento stesso che per rimborsare i pugili.
Un punto fondamentale e decisamente caldo su cui vale la pena soffermarsi, ci viene suggerito dal fatto che sempre più spesso all'interno di questi eventi capita di assistere a incontri di pugili più esperti e di alto livello, che per forza di cose offrono esibizioni di maggiore impatto e spettacolarità. Ora, il paradosso risiede in quanto segue: un pugile non può essere riconosciuto se non è tesserato alla federazione, un pugile non può essere assicurato se non è tesserato alla federazione, una struttura, o società che sia, non può essere riconosciuta se non affiliata alla federazione, un evento non solo non può essere riconosciuto, ma potrebbe addirittura essere perseguito in termini di legge (e gli organizzatori di conseguenza denunciati), in quanto non sostenuto o organizzato da organi federali o federati. In poche parole, o si danno soldi a quella federazione di cui si è discusso finora in termini più che negativi, oppure la pratica del pugilato risulta bandita e non riconosciuta.
In questo senso, si è spesso discusso su quanto possa essere utile mantenere una possibilità di apertura all'agonismo anche all'interno delle palestre popolari, e va constatato che su questo tema si sviluppa uno dei principali dibattiti di carattere politico in campo di boxe popolare. Se infatti si lavora e si ragiona sul modo giusto di sviluppare un pugilato che sia veramente "per tutti", allora perché chi volesse avere la possibilità di diventare agonista non dovrebbe avere l'opportunità di godere della propria chanche? In questo modo si materializzerebbe una discriminazione al contrario. Un esempio su tutti può rappresentare un valido terreno di discussione.
Partendo dal presupposto che le realtà di pugilato popolare che rappresentiamo nascono dal bisogno di creare un bacino in cui si possa praticare questo sport in un ambiente sano, e quindi antirazzista, antisessista e antifascista (almeno), non va dimenticata la natura ben diversa di quello che rappresenta la tendenza tradizionale. Per quanto riguarda l'argomento razzismo, nonostante alcune realtà si comportino in maniera esemplare, molteplici sono i casi in cui vige una certa ed innegabile diffidenza verso gli stranieri, che sono accettati, si, ma spesso soltanto perché più spregiudicati o più bisognosi di quel riscatto sociale cui si accennava sopra. Di pochi giorni fa' la bella notizia di questa sorta di ius soli introdotto dalla federazione, benissimo, ma bisognava aspettare il 2014 per introdurre una norma tanto efficace quanto nobile, dal momento che da almeno vent'anni esistono realtà come le palestre popolari, i centri sociali, o qualsivoglia genere di associazione che predicavano e proponevano normative di questo tipo? Se parliamo di sessismo, d'altro canto, va constatato che la presenza femminile è senza dubbio accettata e magari più rispettata che in tanti altri sport, ma sicuramente non viene considerata in termini paritari quanto dovrebbe. Sul tema del fascismo, infine, non si può negare che in Italia, a livello tradizionale, le palestre abbiano spesso registrato una evidente presenza di certe sottoculture decisamente "di destra", come succede nella maggior parte degli sport da combattimento. Con questo non si vuole certo fare di ogni erba un fascio, dichiarando che tutte le palestre del circuito federale sono così, ma quello che è certo, è che non si può negare che la tendenza sia questa, e che questa tendenza sia tremendamente forte e tangibile.
Tutte queste considerazioni ci consentono di aprire un ragionamento: se mi si permette di imparare e di appassionarmi alla boxe alla palestra popolare, perché se poi mi saltasse in mente di provare a combattere devo per forza abbandonare la mia palestra e rivolgermi a una realtà federale con tutti i rischi che ciò comporta? Questo spunto apre alla possibilità di proseguire il discorso su due piani distinti: da un lato si può pensare di federare la palestra popolare, e quindi offrire la possibilità di praticare la boxe in modo sano all'interno del sistema federale stesso. Dall'altro si può invece pensare di ragionare in maniera alternativa ed innovativa, scelta che ci permetterebbe di percorrere due strade ulteriori che non è detto che non siano intersecabili. Da una parte, come abbiamo visto, già esiste una situazione che offre la possibilità di autogestire eventi a livello popolare, metodologia che sta già riscuotendo enorme successo. Dall'altra, non si può negare che provare a lavorare per la costituzione di un ipotetico circuito parallelo (o federazione parallela) rappresenterebbe al giorno d'oggi un'opportunità quanto mai concreta. Lo dimostra il proliferare delle strutture popolari, la loro competenza e perché no, in questo caso, la loro competitività. In ogni caso, che si pensi di federare la palestra, che si provi a cercare di costituire una sorta di circuito parallelo, o che semplicemente si voglia proseguire nella scelta di autogestire gli eventi, il dato di fatto innegabile e fondamentale, è che nulla vieta alle realtà popolari di provare a cercare una forma comune di ragionamento e condivisione, costituendo per lo meno una sorta di rete che possa permettere di incontrarsi, confrontarsi e mettere in pratica lo sport in maniera sempre più continuativa e soddisfacente. In poche parole la costituzione di una rete popolare, in cui ciascuna realtà possa comunque gestire in maniera autonoma la propria scelta nel rapporto con l'agonismo, ci permetterebbe di crescere insieme in maniera costruttiva per il bene delle realtà popolari stesse e per il bene del pugilato.
Per concludere il ragionamento su questo argomento possiamo se non altro constatare che nelle palestre popolari si offre un'alternativa valida a un sistema federale quantomeno carente e fallimentare, per non dire malsano. Allora perché per queste realtà non dovrebbero esistere circuiti alternativi basati su altri valori e concetti sicuramente più nobili e vicini al concetto stesso di etica che il pugilato esprime? Non dimentichiamo che non si sta di parlando di fantascienza, questa alternativa esiste per quasi tutte le discipline sportive, dal calcio al rugby, fino ad arrivare alla thai boxe, che ha costituito il suo circuito UISP proprio negli ultimi tempi. Ora, francamente, non si capisce perché questa opportunità non possa concretizzarsi anche per il pugilato.
Infine non va sottovalutato un altro elemento importante, strettamente legato al momento storico in cui stiamo vivendo. In tempi di crisi, infatti, non si può certo trascurare lo straordinario esempio organizzativo che le palestre popolari rappresentano. Se da un lato la totale autogestione rallenta lo sviluppo della struttura fisica della palestra, in quanto tutto è frutto della passione di chi la costruisce, è anche vero che le palestre popolari vivono di un autofinanziamento totale. In tanti casi i maestri non fanno autoreddito o percepiscono solamente un piccolo rimborso spese, e ciò permette di investire la quasi totalità degli introiti nel bene e nella crescita della palestra stessa. Allo stesso modo, il fatto di poter disporre della struttura per l'organizzazione di eventi, costituisce un altra importante forma di autofinanziamento, dal momento che la totale autogestione permette di indirizzare i guadagni nella sola direzione della palestra. Tutto ciò rende possibile sopravvivere mantenendo prezzi di iscrizione bassissimi, diventando a tutti gli effetti una concretezza davvero accessibile a tutti, anche dal punto di vista economico.
In conclusione, quando parliamo di pugilato popolare, ci si trova di fronte a un fenomeno in evoluzione dalle enormi potenzialità che sarebbe controproducente trascurare o sottovalutare. Da un lato si sta costituendo un sistema concreto di pratica di questo sport che sia sano e conveniente, dall'altro ci si trova di fronte alla possibilità di permettere al pugilato di evolversi in maniera rivoluzionaria rispetto alle carenze organizzative di cui fino ad ora è stato vittima.
Non è quindi un'eresia, dal momento che esistono una miriade di realtà concrete in tutta Italia, pensare che si possa trovare un piano comune su cui ragionare, perché non possiamo negare che sia questo il momento giusto per spingere sull'acceleratore, o quantomeno, un momento tremendamente favorevole per farlo. Si tratterebbe in questo caso di valutare bene le priorità. Al di là delle inevitabili divergenze quali possono essere per esempio il dibattito agonismo/non agonismo cui si è accennato, bisognerebbe per ora focalizzare il discorso su come cercare di progredire nella direzione di costruire quell'ambiente pugilistico sano di cui si è parlato, e su questo, le realtà popolari sparse per tutta Italia possono disporre di vari assi nella manica. Si tratta solo di cominciare a giocare.
In poche parole il pugilato, così come ci viene proposto, non ci piace. Ora abbiamo la possibilità di migliorarlo, non perdiamo questa occasione.