Tra le tante cose scritte su Marcell Jacobs dopo l’incredibile oro olimpico conquistato a Tokio mi ha colpito la velata, ma nemmeno troppo, accusa di doping lanciata dal Washington Post, secondo cui è sospetto un miglioramento dei risultati così repentino.
Nel giro di due giorni, il neo campione olimpico ha infatti migliorato sensibilmente non solo il suo record personale ma anche il primato italiano ed europeo della specialità sfondando la barriera dei 10 secondi per ben tre volte e arrivando, proprio in finale, a vincere con un superlativo 9.80. Il risultato, ha attirato l’euforia degli appassionati e i dubbi degli invidiosi, tra i quali, appunto, il Washington Post.
L’articolo, è stato lo stimolo per una riflessione a 360° non solo sul doping ma più in generale sullo sport. Chi vi scrive ha vissuto in prima persona l’epoca d’oro del ciclismo, quella del Pirata di Cesenatico che faceva impazzire una nazione intera al togliersi la bandana ma soprattutto quella che tra i dilettanti vedeva sfidarsi dei piccoli professionisti con prestazioni che spesso avevano dell’incredibile. I cambiamenti di forma e il miglioramento rapido delle prestazioni sportive erano all’ordine del giorno: corridori che a inizio stagione si staccavano al primo cavalcavia, nel giro di qualche settimana erano lì a dominare in Cima Grappa o a contendersi la vittoria finale al Giro Baby. Nella “pancia del gruppo”, tutti sapevano e tutti stavano zitti. Cosa sapevano? Sapevano che quei miglioramenti non erano “naturali” ma dovuti a sforzi e sacrifici molteplici: allenamenti massacranti, dieta ferrea e… cospicui investimenti economici. Ci siamo capiti, vero? Come ho detto, tutti facevano finta di niente perché, chi voleva tentare la carriera sportiva non aveva altra scelta, era quella l’unica strada percorribile per poter sfondare.
Anche al sottoscritto è stata proposta la scalata al grande circo delle due ruote ma, fortunatamente, mi hanno salvato due cose: la prima è che non sono mai stato un campione, non avevo cioè quelle qualità fisiche indispensabili per emergere, se non una grande combattività; la seconda, forse la più importante, è che ho sempre avuto un’etica ferrea, vale a dire ho sempre voluto essere onesto, sia nel non procurarmi vantaggi non permessi, sia essendo fin troppo generoso in corsa, con il risultato di essere stato più volte sconfitto da disonesti e opportunisti.
Ma cosa c’entra il ciclismo di vent’anni fa con la vittoria sui 100 metri piani di Jacobs dei giorni scorsi, direte voi. C’entra perché è da questa prospettiva che parte il mio atteggiamento verso lo sport in generale: un atteggiamento critico e dubitante di ogni prestazione sportiva dovuta alla mia personale esperienza con quel mondo. Partendo da questo punto di vista, per me tutte le prestazioni sportive sono sospette e ogni atleta accusato di doping è già colpevole ancor prima del processo venendo meno al principio del diritto secondo cui, fino a prova contraria, si è innocenti. Lo so, non è corretto, ma è più forte di me. Per questo le accuse velate del Washington Post in fin dei conti mi trovavano quasi quasi d’accordo.
Ma c’è un però, e bello grande, su cui ho riflettuto in questi giorni. Da questa prospettiva di profondo rispetto per l’etica sportiva, ma non solo, trovo molto ipocrita accusare qualcuno di doping, senza prova alcuna, quando poi viene accettato il sistema-sport sotto tutti gli altri aspetti. Mi spiego meglio: se accettiamo che lo sport sia un prodotto commerciale, dobbiamo accettarne tutte le regole, quelle esplicite ma anche quelle implicite, quelle oscure che solo gli addetti ai lavori conoscono, una sorta di codice di onore nascosto secondo cui sei un campione pulito finché non ti scoprono. Un altro esempio: le Olimpiadi sono un carrozzone enorme che porta sovente devastazione ambientale e sfruttamento. Vi ricordate Torino 2006 con le sue ultra moderne strutture oggi abbandonate? Se vogliamo, possiamo cambiare sport e pensare al calcio con i Mondiali in Brasile o quelli in Qatar, ma la sostanza non cambia molto. E cosa dire degli illeciti finanziari nel mondo del calcio, degli stipendi inaccettabili per tirare due calci a un pallone, del doping tecnologico nel ciclismo, dello sport usato come veicolo di propaganda per regimi totalitari e assassini, dalle Olimpiadi di Berlino del 1936, passando per la Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet, per il Giro d’Italia partito da Israele fino ad arrivare alla recente Copa America ospitata dal Brasile di Bolsonaro nonostante la crisi umanitaria legata al Covid 19?
Sono solo alcuni esempi di come ormai lo sport sia totalmente permeato dai valori del sistema capitalista, sia cioè una macchina per far soldi e consenso che dei valori di De Coubertin si interessa poco o nulla. Ecco che allora lanciare accuse di doping senza prove diventa una ipocrita presa di posizione che sottintende, in fondo l’invidia e la frustrazione per aver perso l’occasione di riconquistare il trono della prova regina delle Olimpiadi dopo il regno decennale del giamaicano Usain Bolt. D’altra parte, il doping, come l’antidoping, è solo uno dei tanti aspetti dello sport venduto al sistema, utile a far vincere il “prodotto umano” del momento o in alternativa a farlo cadere versandogli addosso responsabilità individuali - processo questo dell’evidenziare le responsabilità individuali omettendo invece le responsabilità del sistema, evidenziato in maniera eclatante dalla pandemia - per salvare un sistema imputridito e permettere di “rivenderlo” pulito agli appassionati. Una sorta di riciclaggio di sport sporco.
Il tema è naturalmente molto complesso ma, a mio avviso, non può essere affrontato senza ipocrisie se non si affronta il più generale tema dello sport come prodotto capitalista: Euro2020 e Tokio2020 disputati entrambi nel 2021 a causa della pandemia dimostrano come l’unica cosa importante sia il prodotto sportivo venduto e nemmeno una crisi sanitaria mondiale devastante può cambiare tutto ciò, neanche il nome del prodotto: sono i soldi, gli interessi economici dietro, il sistema, a determinare le storture del mondo sportivo, a produrre casi di doping, di illeciti finanziari, di utilizzo propagandistico dello sport, di devastazione ambientale per grandi eventi imposti ai territori e finché non verrà affrontato il nodo dello sport sottomesso al sistema capitalista, non resta altro che accettare di emozionarsi per atleti che possono essere campioni di un giorno, di un mese o di tutta una vita sportiva.