Devo ammetterlo, la paurosa concretezza di questo calciatore, era tale da aver richiesto un mio costante impegno nel non far diventare questo elogio un banale elenco di numeri e trofei vinti. Ma credetemi, vi basta controllare la sua pagina Wikipedia per capire quanto sia facile dare un’idea della sua grandezza semplicemente attraverso le statistiche.
Allora ho deciso di andare un po’ al di là della fredda cronaca a portata di smartphone e definire quello che è stato questo attaccante attraverso pochi concetti indissolubilmente legati a lui, dentro e fuori dal campo. La prima sensazione che, in maniera lampante, comunica, ogni secondo trascorso da lui sul terreno di gioco è: estraneità. Innanzitutto, estraneità verso il contesto: come può un ragazzo alto 1,75 e in sovrappeso giocare centravanti nel calcio tedesco degli anni 60? Un’epoca ancora totalmente improntata sullo stereotipo per cui il numero 9 deve essere alto, potente, muscoloso e possibilmente biondo. Fin da subito Gerd a queste obiezioni risponde con i fatti e dopo una sola stagione nella squadra locale del TSV 1861 Nördlingen, trascorsa a suon di gol, sta per firmare con la squadra più famosa ed importante della Baviera, il Bayer.. no! Il portentoso Monaco 1860, squadra di Bundesliga e fresco vincitore della Coppa di Germania. Ma, a poche ore dalla firma del contratto, si presenta a casa Müller uno strano personaggio che di mestiere fa il parrucchiere e nel tempo libero talent scout del Bayern Monaco, squadra militante in Regionalliga Süd (la serie B dell’epoca), quest’ultimo affabula ed affascina la Signora Müller la quale alla fine si convince a spedire il figlioletto dai biancorossi. Proprio dopo la firma con il Bayern l’estraneità di Gerd si fa sentire prepotentemente, infatti l’allenatore della prima squadra, Zlatko Čajkovski, dopo averlo visto la prima volta esclamerà “Cosa me ne faccio di un sollevatore di pesi? Uno così è troppo grasso per trovare spazio in area di rigore” e da lì originerà uno dei suoi soprannomi “der kleines dickes Müller” ovvero il piccolo grasso Müller, non esattamente il presagio di una lunga e trionfale carriera. È costretto a giocare la prima parte di stagione con la squadra riserve, ma dal suo esordio in prima squadra va in rete per 12 partite consecutive trascinando la squadra in Bundesliga. Da quel momento diventerà l’indiscusso padrone della maglia numero 9 del Bayern Monaco per 15 anni, formando assieme a Maier, Beckenbauer e Hoeness la spina dorsale di una di quelle che verranno ricordate tra le più forti squadre di club del XX secolo. Ma dove davvero la sua estraneità si sublima ai livelli più alti, rendendola quasi palpabile, è durante i 90 minuti di gioco. Durante la partita diventa come un’ombra, una presenza totalmente avulsa dal gioco, quasi inutile al di fuori dell’area di rigore, sempre alla ricerca di un errore da parte della difesa avversaria o di un pallone buono per fare gol come se la sua mente non potesse perdere tempo a fare tutto il resto perché sempre, costantemente focalizzata sulla ricerca dell’occasione da rete. Un istinto quasi predatorio che lo rendeva intuitivo e controintuitivo come nessuno, e più lo si guarda e più si capisce come la sua totale disarmonia estetica fosse solamente un’arma votata alla totale efficacia sottoporta, un’apparente incoordinazione che alterava completamente i tempi di reazione di portieri e difensori ai quali rubava attimi decisivi senza che loro realizzassero come ci fosse riuscito. Anche dopo la fine della sua carriera sportiva, terminata con due stagioni negli USA tra il 1979 e 1981, l’estraneità ha continuato a caratterizzare l’esistenza di “torpedo” ma questa volta purtroppo in forma molto meno redditizia. Una serie di investimenti andati male nel campo della ristorazione, la sua nota introversione caratteriale, ma soprattutto l’incapacità di determinare la propria autosoddisfazione con qualcos’altro al di fuori di ciò che ha saputo fare meglio nella vita, ovvero il gol, rendono Gerd totalmente estraneo a sé stesso. Fino a quando al suo ritorno in Germania a fine anni 80, i problemi di depressione e dipendenza da alcol diventano totalmente incontrollabili ed evidenti a chiunque, a tal punto che la famiglia chiede aiuto ai suoi vecchi compagni di squadra, diventati nel frattempo dirigenti del Bayern o della federazione tedesca i quali convincono Müller a farsi aiutare e ad andare in riabilitazione. Nel 1992 è di nuovo sotto controllo e per lui il Bayern apre alla possibilità di allenare nelle giovanili, per Gerd l’occasione di tornare in contatto con il suo elemento naturale è decisiva per riuscire a sconfiggere definitivamente i suoi demoni. Fino al 2011, quando durante una seduta di allenamento a Trento scomparve improvvisamente per poi essere ritrovato in stato confusionale parecchie ore dopo. No, non era una ricaduta, come alcune testate giornalistiche tedesche si erano affrettate a scrivere, ma una delle prime manifestazioni di un’altra malattia: la demenza di Alzheimer e in questo caso l’estraneazione è totale e non risparmia alcun aspetto della sua vita. Dimenticherà ogni cosa, perfino come si fa gol. Tuttavia lascia un’immensa eredità che nessuna malattia neurodegenerativa può intaccare, la palese dimostrazione di quanto il calcio sia un gioco diversificabile e intrinsecamente pregno di infinite varietà interpretative. È esistito un solo giocatore in grado di vincere: Coppa del Mondo, Campionati Europei, Coppa dei Campioni, Pallone d’oro e Scarpa d’oro perché è esistito un solo Gerhard “bomber der nation” Müller.
Il 2 Novembre 2020 sua moglie dichiarava: “dorme in attesa della fine” ieri questa fine è arrivata, portandosi via un corpo dentro cui non c’era più nulla della persona che era stata e la sensazione che un attaccante così non lo rivedremo mai più. Danke Bomber.