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Sport e razzismo, un pessimo binomio che continua a far parlare di sé, a riempire le pagine dei giornali e occupare gli spazi dei notiziari sportivi.

 

 

E’ di poche settimane fa la notizia dei “buh” e fischi contro Balotelli partiti dalle curve occupate dai tifosi veronesi; Mario reagisce, scaglia il pallone in tribuna e l’arbitro sospende la partita per qualche minuto. A partita terminata, sulla pagina ufficiale dell’Hellas Verona spuntano dei commenti che stigmatizzano l’accaduto affermando che al Bentegodi nessuno ha sentito i primitivi suoni razzisti nei confronti di Mario, nessuno tranne gli ispettori che riporteranno il tutto in federazione. Ma Federcalcio tace. Ad aggravare l’episodio ci pensano prima cinque esponenti della giunta comunale di Verona che minacciano di denunciare per diffamazione Balotelli e chi lo difende associando Verona e veronesi al razzismo, poi Massimo Cellino,  presidente del Brescia calcio, che una decina di giorni fa in conferenza stampa, afferma che Supermario deve comportarsi meno da “negro”. Letteralmente: “Cosa succede con Mario. E’ nero, sta lavorando per schiarirsi, ma ha molte difficoltà”.

Questi atteggiamenti, prodotti dai vertici delle federazioni, delle istituzione, delle dirigenze delle società, non fanno altro che legittimare degli atti razzisti e di intolleranza anche fuori dai campi da gioco, rendendo ancora più vulnerabili le vittime di azioni discriminatorie, rendendo il razzismo una pratica abituale. Uno stato di norma A farne le spese sono anche i giocatori e le giocatrici nell’intimità della propria privata.

Ne sa qualcosa Eniola Aluko, giocatrice della Juventus che nel motivare il suo addio al club torinese afferma di essere stufa di essere trattata come una ladra a causa del colore delle sua pelle, che Torino sembra indietro di un paio di decenni riguardo al tema dell’inclusione e della multiculutralità, che nel calcio italiano il problema razzismo esiste come altrove, ma ciò che risulta preoccupante è la risposta dei presidenti, che considerano il problema come “parte della cultura del tifo”. La stessa calciatrice afferma di non aver lasciato la Juventus per l’intolleranza, ma se le parole hanno ancora un significato, quelle di Eni Aluko, lasciano poco spazio alle interpretazioni.

Purtroppo non è l’unico episodio degli ultimi giorni.

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Maxime Mbandà è un giocatore della nazionale italiana di Rugby, terza linea della franchigia federale “Zebre” impegnata nel campionato internazionale “Top 14”. Di padre congolese e mamma beneventana, Maxime questa volta ha deciso di dire basta ed ha denunciato pubblicamente tramite i suoi canali social, l’ennesima aggressione verbale a sfondo razzista avvenuta per le strade di Milano, durante una serata tranquilla trascorsa con gli amici. Poche parole pesantissime, concluse col più classico dei “torna al tuo paese“, parole che hanno segnato l’animo di un gigante abituato a lottare sui campi da gioco. Maxime è un rugbista e dopo aver subito il “placcaggio alto”, si rialza ed è subito pronto a riprendere la battaglia contro chi ha il disprezzo per una cultura diversa o il colore della pelle diverso perché: "tutti siamo cittadini italiani, tutti siamo cittadini del mondo e tutti dobbiamo essere rispettati in egual modo".

Purtroppo nemmeno il mondo del rugby è nuovo a questi gravi episodi di intolleranza. Un anno fa circa, l’ex rugbista gallese Gareth Thomas, subì una aggressione davanti un locale di Cardiff perché omosessuale. Di contro, la Federazione australiana, poco prima dell’inizio dei mondiali disputati in Giappone, ha deciso di rescindere il contratto al fortissimo estremo Israel Folau, colpevole di aver riportato frasi omofobe sul proprio canale Facebook.

Ci auguriamo che azioni forti come quella intrapresa dal rugby australiano, unite al messaggio di Maxime possano porre un freno a una deriva che ha superato abbondantemente i limiti dell’accettabile. Possano arrivare ai diretti interessati e possano responsabilizzare il mondo dello sport, dalle dirigenze ai giocatori e giocatrici, passando per le tifoserie, perché oltre ad essere una passione, un lavoro, uno spettacolo, lo sport ha anche una funzione educativa ed in tempi come questi non possiamo permetterci di far passare messaggi discriminatori e razzisti, indipendentemente dalla forma della palla.