di Davide Drago e Gianluca Ferretti
Non serve per forza essere dei critici cinematografici - ed è bene tenerlo a mente per tutta la lettura dell’articolo - per recensire una storia che può toccare anche parecchio da vicino. Quando si parla di un fenomeno così popolare come il calcio - o meglio, come lo intendiamo noi - viene difficile non dare una propria lettura su Ultras, il primo lungometraggio firmato Francesco Lettieri.
Chi scrive ha visto questo film comodamente dal divano di casa propria, ultras, ex ultras, supporter, gente che ha o ha avuto a che fare con il mondo delle curve da Nord a Sud e anche in piazze come quella di Napoli, non si è lasciato sfuggire l’occasione di vedere il debutto del giovane regista e, a causa del tema, trattato probabilmente il seguito è stato maggiore. Possiamo parlare di un’occasione mancata? Crediamo proprio di si. Poteva essere l’occasione di capovolgere il racconto che era stato fatto nel film ACAB, dove si guardava al mondo degli ultras soltanto dal punto di vista della polizia? Sì, assolutamente; peccato che non sia riuscito il tentativo. Dietro “Ultras” c’è un progetto molto più ampio e complesso che va oltre a questo film e che gira attorno alla figura, anzi al prodotto, di Liberato. Infatti, spostandosi in un terreno in cui “se non sai” rischi di cadere in banalità, con questo film si è arrivati addirittura a denigrare e mettere in cattiva luce il movimento ultras. A primo impatto nel film di Lettieri gli ultras sarebbero tutti “teste vuote”, tossici e violenti. Sullo sfondo di tutto c’è il gruppo degli Apache, identitario, old school, con individui legati al proprio gruppo e alla sua storia. Nulla di nuovo sotto al sole, tutti i gruppi ultras sono così. Anche il gruppo di “fuoriusciti”, che prende forma dopo il veto messo dai vecchi del gruppo di non partecipare alla trasferta di Roma e soprattutto di non portare con sé uno striscione con su scritto “Bruciamo la capitale”, avrà gli stessi valori. No Name Naples, decide di chiamarsi il gruppo di fuoriusciti dagli Apache. La loro sigla, impressa a lettere cubitali sulla parete della palestra-quartier generale. Tempio era l’angolo del porto dove gli Apache si incontrano, tempio diventerà la palestra dei “NNN”. Due templi, due generazioni a confronto, con una ancora più giovane che diventerà ago della bilancia in tutta la storia, anzi ne determinerà la storia. Una contrapposizione che va oltre la battaglia generazionale, ma sottolinea come la cultura modaiola stia entrando all’interno del mondo ultras. Una guerra all’interno del gruppo, come una guerra è diventata il mondo dello stadio. Diffide, daspo, tessere del tifoso. Due sono le figure centrali del film. Da una parte Sandro detto il Mohicano, co-fondatore e capo dello storico gruppo ultras “Apache”, sottoposto alla misura del Daspo andrà ogni domenica a firmare, mentre Angelo è un ragazzo che ha visto morire il fratello “Sasà” durante degli scontri accaduti anni addietro tra napoletani e romanisti. Sono vari i riferimenti al mondo reale delle curve napoletane. Già il nome “Apache” fa pensare per associazione al gruppo “Fedayn E.A.M. Anche lo striscione “Spirito selvaggio” che ricorda il gruppo “Spirito libero”. L’appartenenza e la violenza vengono sottolineati dalla causa scatenante delle tensioni all’interno del gruppo, ossia l’oltraggio fatto ad uno storico striscione legato ad una delle imprese definite come mitologiche degli Apache, e conservato come una reliquia: ecco, i segni sono destinati a bruciare, l’appartenenza ad essere ridefinita in un’esperienza che non passa più dalla riconoscibilità monolitica in pratiche tribali, ma attraversa una sorta di replica generica, di riferimenti comportamentali e modelli già visti. Questi ragazzini si comportano un po’ come quelli della “Paranza dei bambini” di Giovannesi, immortalati in pose da camorrista per i selfie, imparati dalla tv e per la voglia che hanno di divertirsi, al di la dell’appartenenza al gruppo. Quando davanti al panorama della città i ragazzini connetteranno Napoli al mondo (“se vinciamo davvero crolla Napoli”, “no, crolla il mondo intero”), è perché davanti a loro in quell’istante si stagliano i confini conosciuti di tutto il loro universo, abbracciato dal Vesuvio come unico orizzonte possibile. Ultras mixa così la “vetrinizzazione” della città partenopea (esplicitata da inserti che ironizzano apertamente sul canone turistico del capoluogo) con il dietro le quinte della metropoli, edifici in costruzione, passaggi sotterranei e angoli nascosti della mappa, alla stessa maniera con cui l’elettronica di Liberato passa a intervalli con il repertorio popolare di Pino Daniele e Lucio Dalla. Gli NNN con i giovanissimi andranno a Roma. Qualcuno andrà li per “vendicare un fratello morto”, altri perché devono dimostrare il loro potere all’interno del nuovo gruppo. C’è chi andrà a Roma, in barba a qualsiasi restrizione per salvare il salvabile, o forse no! L’arrivo a Roma sembra accostare gli ultras al peggior commando di terroristi. Arrivano chiusi dentro a dei furgoni, armati fino ai denti. Gli scontri con la polizia sono surreali, più che cinematografici. Il finale è quasi scontato. Il Mohicano, nonostante dovesse essere in questura a firmare, è lì in prima linea per cercare di salvare il giovane Angelo. Il film ha sollevato critiche sia nel mondo degli ultras ma anche tra la gente comune. Una tra tutte Antonella Leardi, madre di Ciro Esposito, il tifoso napoletano ucciso nel 2014 da un ultrà della Roma. «Nel vedere il trailer del film Ultras con la regia di Francesco Lettieri, sono stata colta da sgomento e profonda tristezza. Non posso che condividere le parole espresse dall’avvocato degli Ultras Emilio Coppola: questo film è una pugnalata al cuore ed una offesa nei confronti non solo della mia famiglia ma anche e soprattutto della memoria di Ciro, mio figlio». Per quanto riguarda i riferimenti alla storia personale di Ciro, Antonella Leardi ha aggiunto: «I riferimenti alla storia di mio figlio sono così espliciti, che non posso tacere. La narrazione, anche solo del trailer è davvero offensiva per mio figlio. Ciro non è mai appartenuto a quel mondo che viene descritto nel film. Ma soprattutto non ci identifichiamo nei sentimenti e nei messaggi che vengono in questo film promossi. Mio figlio è morto per un deliberato atto di violenza. E dal momento della sua morte, tutta la mia famiglia, si è prodigata per diffondere un messaggio di non violenza che abbiamo condiviso nelle TV, negli eventi, negli stadi e nelle scuole. Questo voglio sia chiaro e, nel film, non emerge nessuno di questi messaggi».
Antonella, difende giustamente suo figlio, e noi non vogliamo entrare nel merito del fatto se Ciro fosse o meno un ultras, non è questo il punto ma quello che è certo è che Ciro è morto per un agguato non perché gli ultras del Napoli fossero andati a Roma in cerca di vendetta. Qualcuno potrà dire che il racconto del film Ultras non è quello della vicenda di Ciro Esposito o che magari addirittura Ciro sia quel Sasà che è morto prima dell’inizio del film e che gli ultras vanno a vendicare a Roma. Comunque la si prenda e qualunque sia il personaggio di Ciro che viene impersonificato nel film, si sottolinea una voglia di vendetta che attorno alla vicenda di Ciro Esposito non è mai esistita. Non vogliamo entrare nel dibattito della violenza ultras, dell’appartenenza, della mentalità, ma vorremmo che non vengano strumentalizzate storie come quella di Ciro Esposito e di tutti quei ragazzi morti soltanto perché seguivano una passione, coltivavano un sogno, sentivano di appartenere a qualcosa simile ad una famiglia. Dalla sua pagina Facebook, Lettieri ha provato a smarcarsi rispetto alla strumentalizzazione della vicenda di Ciro Esposito, definendolo un semplice equivoco. Il regista ha sottolineato anche che ogni gruppo ultras ha il proprio “martire” e che il Sasà che fa da sfondo a tutta la storia rappresenta ognuno di essi. È vero Lettieri con le immagini riesce a restituire al pubblico una bellissima immagine di Napoli (anche se molte scene sono girate a Pozzuoli), nessuno mette in dubbio la sua bravura nella scelta della fotografia, e i video di Liberato ne sono un esempio. Una cosa è certa: è stata un’occasione mancata! Bastava non calcare la mano sugli stereotipi che investono il mondo degli ultras. Si poteva raccontare un’altra storia!