«Narra la leggenda che il Comandante Bae fosse un indigeno messicano in esilio a Venezia o un guerrigliero veneziano andato a combattere in Sudamerica». Comincia così il comunicato che è apparso qualche settimana fa sulla prima pagina del sito de El Estadio Bae, ritornato online dopo qualche anno.
E forse migliore introduzione non poteva esserci, perché di chi fosse il Bae e cosa fu il progetto El Estadio del Bae sono rimasti solo i ricordi di chi lo ha conosciuto o ha vissuto quella grande stagione del progetto; ricordi un po’ scoloriti dal tempo e romanzati proprio come nelle leggende che si creano attorno a personaggi che hanno lasciato il segno nella storia o anche solo nella propria comunità.
E il Bae, all’anagrafe Francesco Romor, il segno lo ha lasciato davvero nella comunità di terraferma e laguna veneziana: padre e leader storico indiscusso degli Ultras Unione VeneziaMestre e di tutta la Curva Sud del vecchio e glorioso Stadio Penzo, il Bae negli ultimi anni della sua vita ha intrecciato il suo cammino con i giovani attivisti del Centro Sociale Rivolta con cui fondò la famosa “Osteria allo Sbirro Morto”, un’osteria dal nome provocatorio per denunciare gli abusi sistemici delle forze dell’ordine. Quindi no, non era un indigeno del Chiapas, tanto meno un guerrigliero veneziano andato a combattere in America Latina, ma un ragazzo come tanti, con la capacità innata di trascinare ed emozionare, un ragazzo come noi che amava la sua città e la sua comunità e odiava le ingiustizie.
E proprio perché non poteva sopportare le ingiustizie nel febbraio 2001 decise, assieme a molti altri attivisti, di unirsi alla “Marcia del Color della Terra” che un piccolo esercito di sognatori aveva intrapreso laggiù, nel Chiapas dimenticato da tutti. Quell’esercito di sognatori era niente di meno che l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, che solo sette anni prima aveva fatto irruzione nel panorama politico messicano e mondiale sconvolgendo le “regole” classiche della guerriglia, rinunciando alla conquista del Palazzo d’Inverno e costruendo il proprio futuro sull’autonomia, la libertà, l’indipendenza e la democrazia dal basso. Armati solo di parola e tanto coraggio e determinazione, gli zapatisti, uscivano per la prima volta dai loro territori nella Selva Lacandona chiamando a raccolta attivisti e attivisteda tutto il mondo perché li accompagnassero.
Purtroppo Francesco non arrivò mai in Chiapas: solo pochi giorni prima della partenza, il 13 febbraio 2001, sopraggiunse la morte a portare tra i suoi amici, fratelli, compagni, un dolore e un vuoto insopportabile. Quel grido di dolore si trasformò però in una promessa: «ti porteremo noi in Chiapas». Fu così che la delegazione di attivisti che accompagnò gli zapatisti nella marcia trovo il tempo di fermarsi a Guadalupe Tepeyac, appena liberato dopo sette lunghi anni di occupazione militare, dove assieme alla comunità en rebeldía fu decisa la costruzione di un impianto sportivo polifunzionale con servizi per tutta la comunità, che prese il nome di El Estadio del Bae. Negli anni a seguire le stesse comunità zapatiste si riorganizzarono amministrativamente parlando con la nascita dei “Caracol” e proposero sostanziali modifiche al progetto che finì per diventare un contenitore al cui interno trovarono posto le necessità dell’intero Caracol de La Realidad. Nel concreto, il progetto contribuì dunque a sistemare acquedotti, costruire falegnamerie, ristrutturare villaggi colpiti dagli uragani, riparare la turbina elettrica de La Realidad, sostenere il progetto Agua para Todos e infine costruire il laboratorio erbolario, la struttura che forma i promotori di salute dell’intero Caracol Hacia la Esperanza, fortemente voluto dalle mujeres rebeldes del Caracol stesso. A festeggiare tutto questo nel 2005 una delegazione si recò in Chiapas per giocare il primo Mundial del Fútbol Rebelde contro quattro tra le migliori squadre zapatiste.
Ma il progetto El Estadio del Bae non fu solo questo. Dietro a questa parte pratica si formò e attivò una rete di ultras, attivisti, associazioni, migranti che, uniti dagli ideali del Bae per un mondo senza ingiustizie e un fútbol senza razzismo e vigliacche aggressioni, prese il nome di rete del Fútbol Rebelde. Ultras, che l’allora ministro degli Interni Scajola, chiamava “i barbari degli stadi” si unirono per ricordare Francesco, deponendo l’ascia di guerra e superando antiche e inossidabili rivalità. Da Cosenza a Bologna, da Pisa ad Ancona, da Empoli a Modena, a centinaia furono contagiati dall’idea di costruire “otro mundo” e al tempo stesso dar prova che i “barbari” erano ben altri. Perfino storiche tifoserie europee, come quelle, tra le altre, del Bordeaux, del Rapid Vienna e del Sankt Pauli si unirono alla rete.
Furono organizzate centinaia di iniziative, cene, concerti, dibattiti, tornei di calcio come quello di Bergamo dedicato a Mirko Burgio, o quello di Pisa dedicato a Mau Alberti, o ancora quello di Empoli per Emiliano Del Rosso. La vera vittoria per la nostra comunità fu questa: aver riunito attorno alla figura di Francesco centinaia di persone, gruppi ultras, collettivi che desideravano non solo ricordare una persona nella quale si riconoscevano ma anche fare qualcosa di concreto per ricordarlo. El Estadio del Bae è divenuto quindi un punto di incontro tra culture differenti, legate dal comune desiderio di cambiare il mondo attraverso percorsi di costruzione di solidarietà dal basso, di conoscenza e rispetto delle differenze, di condivisione di lotta e di pensieri ribelli. Così, la vita sconfisse la morte, così si costruirono ponti al posto di muri.
E a proposito di muri, un muro e il suo mural sono diventati il volàno per ritrovarsi nuovamente a cospirare insieme: chi in questi anni veniva a visitare Venezia non poteva non guardare stupito l’imponente muro che recitava “Bae per sempre” posto nella zona industriale di Porto Marghera, proprio al limitare della laguna. Quel mural era divenuto il simbolo di una comunità sportiva e non solo, anche per chi non ne conosceva il significato, anche per chi, guardandolo, si immaginava chi potesse essere quel leggendario Comandante Bae.
Recentemente quel muro è stato abbattuto per far posto a una variante stradale. La perdita di quel simbolo ha messo in moto i vecchi amici, fratelli e compagni di Francesco che, guardandosi negli occhi, si sono resi subito conto che aspettavano solo un pretesto per ritrovarsi nuovamente. Il Bae non poteva essere ricordato solo attraverso un altro mural ma portando avanti quegli ideali che sempre hanno contraddistinto la sua vita. Così, nonostante la pandemia abbia messo i bastoni tra le ruote, ogni giorno di più è cresciuto tra gli amici, i conoscenti, i compagni, il desiderio di riprendere in mano quel discorso interrotto pochi anni prima. In poco tempo alle riunioni si sono viste le facce invecchiate di ex ultras, amici e compagni ma soprattutto tante e tanti “sbarbai”, giovani cresciuti col mito del Bae e desiderosi non solo di conoscerlo attraverso i racconti dei “veci” ma anche di assumersi l’onore e l’onere di cominciare una nuova storia negli stadi e nelle piazze.
Secondo la concezione ciclica del tempo dei maya, la storia è costituita dalla successione di cicli di 20 anni, che i maya chiamavano katún. E così, a vent’anni da quando ci ha lasciato, si apre un nuovo katún e il Bae riprende a correre e a sognare. A farci costruire utopie e progetti campati in aria, a unire tante voci differenti. A costruire invece di distruggere. A mettere insieme invece di dividere. Come succederà il prossimo 13 febbraio quando, alla presenza di amici di una vita, attivisti, ultras ed ex giocatori del VeneziaMestre (così chiamano la squadra i tifosi del Venezia Fc), verrà presentato ufficialmente il progetto in diretta sulla pagina facebook nell’evento “Bae per sempre. Una nuova generazione sogna con il Bae”. Volete sapere cosa succederà? Collegatevi, e rimboccatevi le maniche che c’è bisogno dell’aiuto di tutte e tutti, perché i sogni possano attraversare gli oceani, superare le montagne e scavalcare i confini.