Note collettive sui fatti di sabato sera
Scriviamo questa nota mentre viene diffusa la notizia che Ciro, il ragazzo napoletano sparato a Tor di Quinto che lotta tra la vita, la morte e l'incubo di perdere l'uso delle gambe, si trova in stato di arresto piantonato in ospedale. A una prima versione diffusa dalla questura di Roma nella giornata di ieri, che parlava di insulti e lancio di bombe carta da parte del De Santis, che avrebbe provocato la reazione dei napoletani presi di mira, se ne sostituisce quindi un'altra secondo la quale Ciro sarebbe uno degli aggressori e gli spari una sorta di legittima difesa.
Si tratta di una ricostruzione surreale e delirante dell'accaduto che rifiutiamo con forza, ribadendo che questa vicenda ci riguarda da vicino. Non solo perché è la storia di un giovane di trent'anni sparato a freddo mentre andava a vedere la finale di Coppa Italia da un neofascista con una storia criminale inquietante e amicizie pericolose. Ma anche perché lo zio di Ciro (quello che sta pazientemente rispondendo alle curiosità morbose del mainstream) frequenta il presidio antidiscarica di Chiaiano e Marano; e un altro dei ragazzi feriti frequenta abitualmente gli spazi occupati. Perciò Ciro e gli altri feriti sono innanzitutto ragazzi come noi, che abitano nei nostri quartieri, frequentano le nostre zone e si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Esattamente come poteva accadere a ognuno di noi.
Veniamo ai fatti e alle ricostruzioni. Le ultime ore stanno finalmente restituendo, grazie alle testimonianze dei presenti, una narrazione opposta a quella della Questura piuttosto verosimile, che racconta di un vero e proprio agguato teso ai bus che si accingevano a parcheggiare nelle zone indicate dal piano per l'ordine pubblico, ma che evidentemente non erano state adeguatamente sigillate da presenze estranee alla tifoseria napoletana. Un agguato in stile militare che rimanda al sottobosco che lega neofascismo e una parte significativa delle curve romane.
De Sanctis, l'ultras romanista che la Digos ci tiene a descrivere come uno squilibrato isolato, è in realtà un personaggio con macroscopici trascorsi criminali nell'ambito della criminalità nera. Da sempre profondamente legato ad alcune aree dell'estrema destra romana, più volte arrestato dagli anni novanta a oggi perché coinvolto in numerose inchieste insieme a personaggi di spicco come Giuseppe Castellino. Trascorsi che assumono un significato inequivocabile se si pensa che il luogo dove è stata ritrovata la pistola, nascosta dopo gli spari, è quel 57/b di Viale Tor di Quinto, dove si trovano i campi sportivi del Trifoglio gestiti da Alfredo Iorio (fondatore del Popolo della Vita), campi di cui Gastone è il custode.
Ci sembra questa l'unica corretta chiave di lettura dei fatti: capire cosa è accaduto e come si è svolta la dinamica, chi ha esploso quei colpi e perché. Invece no. In queste ore sia il mainstream che il libero cicaleccio dei social network hanno scelto tutt'altre priorità. Così, abbiamo assistito alla redazione dell'albero genealogico di Genny 'a Carogna o alla supponente condanna della presunta compromissione degli ultras con la camorra, o ancora alla vergogna di uno Stato che avrebbe passivamente atteso la decisione della curva napoletana per permettere che la partita iniziasse. Quando in realtà la questura di Roma, la prefettura, il ministero dell'Interno e gli stessi tifosi hanno smentito questa ricostruzione, sottolineando che lo svolgimento del match non era mai stato messo in discussione.
Ci chiediamo tuttavia quale sarebbe la sorpresa e quale il motivo dell'indignazione per il confronto con chi, al di là delle costruzioni stereotipate, può avere il polso reale degli animi delle tifoserie in un momento così delicato come quello di sabato sera. Quale sorpresa poi per uno Stato che da decenni si accorda con soggetti ben peggiori, per fatti ben più scellerati?
E' abbastanza ovvio che in un paese intriso di perbenismo, ipocrisia e razzismo il tiro si sposti sul capotifoso con la maglietta a favore di Speziale. Perché gli ultras sono un mondo descritto continuamente come altro, come barbaro, come devianza sociale violenta; un mondo su cui negli ultimi anni però si sono sperimentate simultaneamente le peggiori tecniche di repressione e di biocontrollo, a partire dall'uso indiscriminato di pesantissime misure cautelari e di limitazione della libertà personale, attraverso il Daspo - una pena senza processo - passando per la tessera del tifoso. Un mondo che come la Turchia ma anche la stessa Napoli ci raccontano ha visto spesso gli ultras in prima fila nelle battaglie di natura territoriale. Emerge così la figura, improbabile e ridicola per come viene narrata, del capo supremo, dell'imperatore della curva. Imbastito l'archetipo idoneo alla gogna mediatica e tessuto il vestito adatto, la scena viene spogliata degli spari e degli interessi economici enormi del calcio moderno. Perché se si è giocato dipende certo più da questi ultimi che dalla volontà dei tifosi di essere rassicurati sulle condizioni di Ciro, che a un certo punto la vox populi all'interno dello stadio dava per morto.
Allora vai di camorra e delinquenza, di savianismo e di battute ritrite che diventano sentenze. Ad andare in scena è una vera giostra di napoletanofobia che generalizza e condanna, mentre glissa sui cori come "lavali col fuoco" impunemente alzatisi dalla curva della Fiorentina, ancora più inopportuni dopo i fatti accaduti prima della partita, mentre i telecronisti della tv di Stato elogiavano la compostezza dei viola, contrapposta all'inciviltà dei napoletani. Nello stesso momento in cui tre nostri ragazzi si trovavano in ospedale colpiti dai proiettili e uno lottava per la vita. Ad andare in scena è questa Italia, in cui lo Stato fa capolino solo e soltanto nella forma del grottesco moralista che si indigna per i fischi spontanei e massificati all'inno nazionale da parte di chi si sente da troppi decenni colonia politica, economica e culturale. Questa stessa Italia che impegna migliaia di uomini delle forze dell'ordine per una partita finita in tragedia, ribadendo che il ruolo della polizia e dei carabinieri ha più a che fare con l'innalzamento della tensione e con le provocazioni che con la tutela dei cittadini e delle cittadine.
Così tutti quegli uomini sono serviti solo a caricare continuamente ai tornelli, ad aprire altre teste, a picchiare indiscriminatamente, mentre intorno si consumava un tentato triplice omicidio, in una falla gigantesca del piano di gestione dell'ordine pubblico, dove persino un'ambulanza arriva oltre un'ora dopo una chiamata per codice rosso. E' la stessa Italia che segue dalle poltrone d'ordinanza, indignata e altezzosa, le vicende calcistiche, usandole troppo spesso come palestra per le nefandezze presenti e future. E' l'Italia che non curante della vita di Ciro appesa ad un filo ha pensato a proteggere i tempi televisivi, i tempi dei diritti e degli sponsor. E' l'Italia che è sempre in colpevole ritardo perché prima di raccontare i fatti accaduti nelle strade deve fare mille telefonate e mille giri affinché la verità ufficiale non comprometta nessuno e non somigli quasi mai alle cose accadute sul serio. Ecco perché sabato sera i tempi giornalistici del mainstream a fine partita cominciavano a ricostruire i fatti attraverso elementi di fantascienza mentre per le strade della città le cose apparivano chiare già molte ore prima.
Non abbiamo voglia di addentrarci nella trama complessa di questioni importanti e non banalizzabili. Non ci interessa una microfisica spicciola del mondo ultras né una ricostruzione complottista. Abbiamo scritto collettivamente queste poche righe per dire alcune cose chiare: per raccontare cosa sappiamo di chi è stato colpito da quei colpi di pistola, per raccontarlo come una cellula di un corpo metropolitano che si muove con noi, una cellula di cui siamo complici senza se e senza ma. Soprattutto abbiamo scritto per sottolineare alcune delle cose che ora timidamente cominciano a scrivere i giornali, quelle che riguardano le compromissioni tra De Santis e la destra romana, tra l'agguato e i luoghi da cui si è mosso. Abbiamo scritto perché fosse chiaro da quale mano è partito il colpo e quali corpi ha ferito.
Non significa chiaramente semplificare con gli schemi della politica un mondo che evidentemente la eccede, la trascende o la evita, ma significa inserire un nostro punto di vista nella nella ricostruzione dei fatti, mentre attorno a noi il circo mediatico cerca ancora protagonisti e comparse d'occasione, mentre il perbenismo la fa da padrone, stretto a doppia mandata tra napoletanofobia e razzismo. E mentre lo Stato attraverso la logica del capro espiatorio parla di Daspo a vita da estendere anche ai manifestanti in ambiti del tutto distanti da quelli sportivi, ribadendo che gli stadi alla fine sono solo dei laboratori nei quali si sperimentano forme di repressione che vengono poi generalizzate ed estese togliendo a ognuno di noi sempre più libertà. Anche a chi in uno stadio non ci ha messo mai piede.
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