La verità può essere scomoda o può essere benvenuta, agognata. Può fare male o può far stare meglio. Di certo è sempre giusto cercarla, esigerla, perché è semplicemente giusto sapere la verità. Quindi, ben venga la riapertura delle indagini sulla morte di Marco Pantani; se qualcuno ne è responsabile è giusto che paghi.

 

Ma sarebbe bello non saperne più niente fino alle conclusioni, perché il modo in cui è utilizzato il dolore dei familiari e questa triste storia ha poco a che vedere con la verità.

Quello che lascia perplessi è ciò che traspare dal racconto quotidiano di questa storia. Andando a ritroso, i media ci dicono che Marco non è morto, è stato ammazzato. E forse è stato ammazzato perché voleva dire qualcosa di scomodo sul ciclismo. E per questo era stato “scaricato” dall’ambiente. Per questo soffriva di depressione e aveva cominciato a usare cocaina (come con il doping, solo una volta, quella fatale). Per questo aveva smesso di correre.

Tutta questa ricostruzione è ricondotta ai fatti di Madonna di Campiglio, dove la mattina del 5 giugno è stato trovato con l’ematocrito a 51,9, e alla sua conseguente espulsione dal Giro d’Italia per motivi di salute.

Sì, perché in quel periodo vigeva la regola “salva vita” per cui se ad un controllo un corridore veniva “pescato” con l’ematocrito oltre il 50% veniva fermato: il sangue troppo denso è un rischio per la salute. Ecco che si arriva dunque all’equazione secondo la quale Marco è morto per i fatti di Madonna di Campiglio, dove qualcuno l’ha incastrato!

Quel qualcuno non è più tanto un mistero, i media oggi battono la notizia che la Camorra avrebbe alterato quelle famose analisi per il giro di scommesse clandestine che controllava. Lo avrebbe confermato pure Vallanzasca, in quegli anni in carcere a Milano, che aveva avuto una soffiata da un altro detenuto, affiliato ad un non meglio precisato clan camorristico.

A questo punto, agli occhi dell’opinione pubblica, il processo non riguarda più chi ha ammazzato Marco, ma la redenzione della sua immagine di uomo dopato e drogato. L’omicidio diventa così una prova della sua innocenza e del complotto ai suoi danni.

Questa immagine negativa, peraltro, all’epoca è stata montata ad arte nel momento più difficile dai media stessi, quando tutto il mondo del ciclismo, e non solo, era scandalizzato dalle notizie che lo riguardavano.

I vizi o le virtù del Pirata non dovrebbero riguardare altri che lui, al massimo la sua famiglia, sembra invece che tutti possano e vogliano mettere bocca, giudicare, trarre conclusioni.

Diverso invece il discorso per la questione doping. Del ciclismo di Marco Pantani non si può sentire la mancanza. Quel ciclismo ha emozionato, fatto sognare, urlare di gioia e piangere ma alla fine, col senno di poi, ha illuso e preso in giro milioni di appassionati. Ha parlato tanto di imprese, quanto di imprese “truccate”, come di idoli all’apice del successo e poi mestamente scesi agli inferi. È un ciclismo che ha tolto fiducia e passione a moltissimi appassionati.

Ecco, la triste storia di Marco forse dovrebbe parlare di questo. Dovrebbe parlare di come doping, camorra, scommesse, soldi e fame di successo, hanno rovinato questo sport meraviglioso e portato a tragedie come quella di Marco.

Il mondo del ciclismo, tutti, dovremmo chiederci perché siamo arrivati a piangere un uomo che si è ritrovato disperato e solo in una situazione più grande di lui. C’entra solo la camorra o c’è qualcosa di più? Perché si vuole sfacciatamente chiudere gli occhi su un passato che chiunque abbia uno sguardo critico vede nebuloso? Perché non si vuole davvero arrivare alla verità, quella verità tanto agognata sulla morte di un uomo? Perché tra i mille dubbi e le mille domande che nascono spontanee a nessuno viene in mente di chiedere come mai i ciclisti in quegli anni avessero la necessità di tenere sotto controllo i valori del sangue da soli prima dei controlli ufficiali?

A scanso di equivoci, a chi scrive non importa dire che Marco Pantani o chi altro fosse dopato. Non è questo il punto. Il punto è che chi ama veramente il ciclismo e l’ha vissuto in prima persona, sa bene come funzionava il sistema ed è solo per amore che oggi esige una verità differente, che non occulti le responsabilità di un ambiente che dovrebbe ritenersi responsabile di molte cose e che invece di ammettere le proprie colpe si nasconde e si rinnova senza prendere consapevolezza degli errori fatti, portando con sé una cultura di omertà e inganni. Non aver timore di affrontare la verità di quegli anni bui, può essere l’impulso decisivo per voltare pagina una volta per tutte, per dare speranze, soprattutto a chi inizia a praticare da giovane questo sport.

E allora sia benvenuta la verità per Marco, per la sua famiglia e per tutti noi appassionati di Marco e del ciclismo. Ma allora, che sia benvenuta anche la verità su quegli anni di ciclismo. Una verità che parli del sistema-doping senza paura, senza inganni e senza la pretesa di punire qualcuno, che sia la base di partenza di un nuovo modello di ciclismo, che insegni alle nuove generazioni uno spirito sportivo diverso, dove non contano solo i soldi e i risultati.

Forse questa è l’unica strada per dare pace e rendere giustizia ad un’anima persa e per non dover rivivere tragedie umane come quella del Pirata.