A Singh, giocatore diciassettenne del Sebino Basket Villongo, squadra giovanile bergamasca, è stato impedito di giocare la partita contro i Roosters Presezzo, perché indossava il sink, il tradizionale coricapo religioso dei sikh, chiamato da noi tutti civili volgarmente “turbante”.
Questa storia può far solo riflettere tutti coloro che in questi giorni si stanno ergendo a paladini di chissà quale forma di libera espressione, democrazia e nel nome della prevaricazione di un credo su un altro.
La storia di Singh spiega molte cose,soprattutto a chi fa del crocifisso un baluardo di integrazione e vorrebbe vedere annullati tutti i diritti al culto di qualsiasi altra forma di fede,compresa quella induista,buddista o musulmana,specialmente in questo recente periodo.
Sebbene alcune circolari della Federazione Italiana Pallacanestro concedessero l'elasticità nell'applicazione della regola, qualora ve ne fosse la possibilità, Singh e' stato vittima dell'eccesso di zelo di un arbitro. Infatti il direttore di gara non ha assolutamente voluto credere che il "copricapo" di Singh, che indossa regolarmente da circa sei anni nei parquet della lombardia, non fosse un aiuto nella pratica del basket, né tantomeno un diversivo per distrarre gli avversari,ma solamente e semplicemente cio' che la sua religione prevedeva,e in cui lui voleva credere senza fare del male a nessuno.
Nella vicenda risalta prepotentemente prima il ruolo della squadra e poi del pubblico,che non hanno gradito la presa di posizione dell'arbitro, abbandonando anch'essi, assieme alla squadra avversaria, il campo per poi iniziare una partita non ufficiale tra gli applausi per il giovane e per questa forma di rifiuto all'incredibile decisione del direttore di gara: una forma di disobbedienza civile e chiusura verso chi vuol usare pretesti discriminatori per applicare regole ed imposizioni, ma contemporaneamente di civiltà ed apertura verso chi professa, soprattutto nello sport, una diversa forma di espressione, in questo caso di religione, e nel pieno rispetto del prossimo.
Contemporaneamente,a migliaia di km da Bergamo, i media italiani hanno riportato la notizia, ancora non confermata ufficialmente, dell'uccisione di 13 bambini a Mosul, perché stavano assistendo a una partita di calcio in televisione della loro nazionale, l'Iraq, impegnata in Coppa d'Asia. Se questa vicenda venisse confermata, verrebbe messa in evidenza l'orrenda ed atroce altra faccia della medaglia di chi usa il pretesto religioso, in questo caso della Sharia, per fare crimini e seminare terrore, allo stesso modo di chi afferma di combattere lo Stato Islamico, ma in realtà ne è complice.
Si sa per certo che l'Isis ha diffuso una circolare nella provincia di Diyala, dove si vieta ai propri militanti di giocare a calcio, perché rappresenta un “allontanamento dallo spirito della jihad”.
Sappiamo tutti come lo sport sia l'unico momento di distrazione e aggregazione che, anche in paesi colpiti dalla guerra e soggiogati dallo Stato Islamico, faccia ancora breccia e interrompa per un attimo le sensazioni dell'ostilità, che suoni e rimbombi, profumi e acri odori purtroppo ricordano costantemente.
Se la notizia dell'uccisione dei 13 ragazzini venisse confermata (speriamo sia veramente una bufala), anche in questo caso, come in altri episodi simili, la risposta a una forma innocente e pura, ma di disobbedienza verso estremizzazioni di leggi religiose, sarebbe l'ennesimo massacro in nome di chissà quale dio.
Per noi che sogniamo un modello di sport inclusivo, antirazzista e antidiscriminatorio e sappiamo anche intrecciare e dare un senso in questa direzione alle nostre battaglie quotidiane, l'esperienza della resistenza di Kobane e del progetto Rojava rappresenta la risposta e l'interconnessione tra le due vicende. La Carta del Rojava, vero documento di determinazione e indipendenza, ma paritario nei confronti del sesso,del credo e dei ruoli nella vita quotidiana, e' il manifesto con cui le comunità curde resistono all'Isis ed e' anche l'unica vera forma nel mondo di conclamata opposizione, non solo militare, ma anche politica al Califfato.
Perché allo Stato Islamico non piacciono le forme autonome e libere, che in qualche modo possano essere una forma di risposta ideologica alla loro Sharia, come bimbi che guardano una partita di calcio o i combattenti nel Rojava che difendono il loro diritto di decidere da soli sulle proprie terre e sulla loro vita.
Come ne ha diritto Singh e tutti i ragazzi che vogliono praticare, guardare e interessarsi di sport senza alcuna discriminazione sessuale,religiosa e omofoba.
Porteremo lo sport anche a Kobane in nome di quella libertà, che un giorno il popolo curdo ritroverà, tra i tagliagola dell'Isis e il "laicissimo" governo turco di Erdogan.