Partiamo da un dato inequivocabile. A Sarri è uscita male. Una caduta di stile bella grossa per chi fino ad ora, con la sua tuta da “lavoro” contro le belle cravatte da panchina, con le sue dichiarazioni sui calciatori e gli operai, si era conquistato un posto nel cuore dei tanti amanti del calcio semplice e bello che ha guidato il Napoli fino in vetta al campionato di serie A. Peggio ancora sono uscite le prime dichiarazioni post partita perché se è triste e scorretto dare ai gay del Mancini, lo è certo di più il paragone con i democristiani.
Il secondo dato è la entità del processo che punta a mettere in croce Sarri. Elemento controverso a maggior ragione se a produrlo è sir. Robert Mancini. Uno che bollava il “lavali con il fuoco” rivolto ai napoletani dalla curva dell’Inter come un simpatico siparietto da stadio e che giudicava gli insulti razzisti di Mihajlovic a Vieira con le stesse parole usate dall’attuale mister del Napoli: “alle volte la tensione esaspera gli animi. Qualche insulto può sfuggire. L’importante è che finisca lì!” Lo chiamavano coerenza … e forse non si sbaglia chi vede dietro il suo atto d’accusa un misto fra narcisismo e volontà di destabilizzare l'attuale capolista. Intenti quanto mai distanti da un reale interesse per la trasformazione in senso antidiscriminatorio del sistema calcio. Quanto mai distanti, cioè, da ciò che occorre davvero.
E’ questa distanza l’elemento più triste di una vicenda che è ben presto degenerata in un dibattito eccessivo, sterile e fuori fuoco. A muoverlo è un calcio autoreferenziale, che privato di spettacolo e progettualità, si nutre di gossip e rivalità. Un sistema che incastrato nella logica del buono e del cattivo, è incapace di produrre cambiamenti reali e si limita a giudizi di superficie e prese di posizione estemporanee. Come i 4 mesi di stop inizialmente paventati dalla federazione al tecnico napoletano. Dimenticano i suoi funzionari che a guidarli è il buon Tavecchio, ossia colui che nella classifica di gaffe sessiste e razziste è primo con margine rispetto ad ogni aspirante sfidante? Che valore ha una pena inflitta da questa autorità? Quesito che appare centrale rispetto alla pochezza della diatriba mediatica Sarri-Mancini.
Una giovane massima parkiana recitava che quando a litigare sono una peretta ed un panino alla merda, non per forza bisogna prendere una parte. Molto più utile sarebbe stato spostare l’attenzione sul centro della questione: le discriminazioni nel mondo dello sport e la strategia efficace alla loro cessazione. Un problema che esiste eccome, basta pensare a quanto è limitato il numero dei coming out in alcuni ambienti sportivi ( ne parlavamo qui: Omosessualità e Sport ). Il calcio è certo uno di questi ed i motivi sono molteplici. L’omofobia che dilaga nelle squadre, negli stadi, in società. Il back-ground culturale fondato su stereotipi che associano alla figura dell’atleta valori quali la forza e la virilità interpretati in senso machista. La pressione degli sponsor che a tal figura di atleta rimangono legati. La tennista Martina Navratilova fu una delle prime a dichiarare la propria omosessualità. Perse nel giro di pochi mesi 12 milioni di dollari di contratti pubblicitari. Erano gli Stati Uniti degli anni Ottanta. Ad oggi sembra che poco sia cambiato e rimane difficile per un atleta omosessuale godere di quel sacrosanto diritto di vivere con serenità la propria sessualità ed assieme la propria quotidianità sportiva.
La cosa più sensata da fare appare allora smarcarsi dal dualismo per rilanciare le iniziative di chi, una trasformazione positiva, la sta tentando davvero sfidando arretratezza e medievale ostilità. E’ il caso ad esempio dei canoisti dell’università di Warwick, che hanno da poco pubblicato l’edizione 2016 del calendario contro l’omofobia, o di Libera, squadra di rugby amatoriale di Roma, che ha conquistato la prima di sport week con una domanda semplice quanto efficace: " Chi ha paura di un bacio?"
Gesti significativi, da dedicare agli omofobi di questo Bel Paese con l’augurio che si estinguano presto, ma pure a quella classe di benpensanti che cavalca l’immagine dei discriminati in vista di obiettivi che con la loro emancipazione non c’azzeccano proprio per nulla. Come a dire che il problema non sono le frasi o le scuse, quanto un impostazione culturale di fondo che abita trasversarlemente e con poche eccezioni, tutti gli ambienti del calcio nostrano e non solo. E' in questo senso che alle punizioni esemplari è di certo preferibile quella sana e quotidiana pratica dal basso che oggi anima una buona fetta di sport indipendente e popolare e senza la quale un giudizio, una multa o una squalifica si traduce in moralismo inefficace e in molti casi controproducente.
Perché lo sport divenga davvero di tutti e per tutti…fra Sarri e Mancini, io scelgo i finocchi!