«Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono molto deluso da questo atteggiamento. Vi posso assicurare che è molto, molto più importante di quello» ( Bill Shankly)

27 giugno 1945: una data sinonimo di libertà. È infatti il giorno in cui le armate sovietiche liberarono la fabbrica della morte: il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.

 

Il lager più conosciuto, più efficiente, più brutale. Per gli internati in quel luogo la vita era un mero alito di fiato. I deportati non erano più uomini, diventavano numeri, codici insignificanti sui quali era permesso ogni sopruso. Per sopravvivere dovevano necessariamente attuare una delle più sottili e infide locuzioni latine: mors tua vita mea. Una lotta di tutti contro tutti il cui unico premio era sopravvivere un mese, un giorno, un minuto, un sospiro in più. Il 27 gennaio è stato così scelto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite come giorno della memoria. Una giornata per ricordare tutti coloro che sono stati vittime del regime nazista. Persone etichettate dai gerarchi tedeschi come “diverse”, indesiderate, inferiori a quelli che erano considerati i canoni della razza superiore.

Uno delle popoli maggiormente vessati dal folle piano di Hitler è stato sicuramente quello ucraino, e in particolare gli abitanti di Kiev. La città, caduta in mano all’esercito tedesco il 19 settembre 1941, ha cominciato a risollevarsi grazie ad un giorno della memoria particolare. Una data da commemorare che si colloca nel periodo di massima espansione nazista, quando ormai la libertà sembrava essere un’utopia lontana e dimenticata. È a Kiev, infatti, che ha avuto luogo una delle più epiche vicende sportive del XX secolo. Novanta minuti in cui undici ragazzi, ridotti allo stremo dalla fatica e dalla fame, hanno riacceso la fiammella della speranza nella popolazione ormai giunta allo sfinimento. Novanta minuti che hanno segnato per sempre le loro vite, perché quella di cui stiamo parlando è nota principalmente al giorno d’oggi come la “partita della morte”.

Siamo nell’estate del 1942. Kiev è da quasi un anno in mano alle truppe del Terzo Reich. In quanto considerati razza inferiore, gli ucraini subiscono ogni possibile forma di violenza da parte dei nuovi governanti. Ogni giorno che passa le libertà diminuiscono, i diritti spariscono, i beni primari ben presto cominciano a scarseggiare. Ai soldati nazisti non interessa se e come la gente si sfama; se si lavora si ha diritto ad una razione giornaliera di cibo, altrimenti si muore di fame. Chi ha qualcosa da scambiare lo fa in fretta e disperatamente, il gelido inverno sta per tornare. Chi non segue le regole impartite dagli invasori viene rapidamente eliminato o deportato. Babij Jar, un fossato distante poco chilometri dalla città, diventa sempre più un nome sinistro e lugubre per gli abitanti di Kiev: in tanti vengono portati lì, nessuno ritorna mai indietro (in poco più di due anni di dominazione tedesca in quel luogo moriranno più di 120.000 civili).

Per rendere “meno amara” la situazione ai sottomessi e ringalluzzire l’umore dei propri soldati, i capi dell’esercito nazista decidono di organizzare un campionato di calcio. Ovviamente l’obiettivo è uno e uno solo: dimostrare la supremazia tedesca anche nello sport. Le squadre che prendono parte al torneo sono sei: una compagine teutonica, due formazioni di militari ungheresi, una di soldati romeni e infine due team ucraini: una formato da collaborazionisti, l’altro da undici calciatori che adesso lavorano in un panificio. Undici campioni che prima rappresentavano il meglio del calcio ucraino. Otto hanno vestito la gloriosa maglia della Dinamo Kiev (Mykola Trusevyč, Mychajlo Svyrydovs'kyj, Mykola Korotkych, Oleksij Klymenko, Fedir Tjutčev, Mychajlo Putystin, Ivan Kuz'menko, Makar Hončarenko, Pavlo Komarov, Jurij Černeha e Petro Sotnyk) e tre quella della Lokomitiv (Volodymyr Balakin, Vasyl' Sucharjev e Mychajlo Mel'nyk). La squadra che va a comporsi prende il nome di Football Club Start. Sulla carta non ci sarebbe storia con le altre compagini, ma Trusevyč e compagni hanno a malapena la forza di reggersi in piedi. Possono fare affidamento solo sulla loro sconfinata classe. Ed è grazie alla propria superiorità tecnica che la Start supera senza troppi problemi i collaborazionisti ucraini, i magiari e i rumeni, arrivando a giocarsi la finale contro i soldati tedeschi. La partita si svolge alla fine di luglio ed è incredibilmente vinta dai ragazzi del panificio con un netto 5 a 1. I capi dell’esercito invasore però non ci stanno; non è possibile che undici giocatori di una razza inferiore, in stato precario per giunta, battano la meglio gioventù della Germania nazista. Così viene indetta una rivincita per domenica 9 agosto. Per l’occasione dal fronte vengono richiamati tutti i migliori ufficiali della Luftwaffe, perché la partita non si deve assolutamente perdere. Per sicurezza, comunque, ad arbitrare l’incontro viene designato un membro delle SS. Il giorno della partita lo Stadio Zenith (attuale Stadio Olimpico) di Kiev trabocca di gente. Tutta la città è corsa a sostenere i propri beniamini sperando in una vittoria. I giocatori della Start, però, vengono intimiditi già all’interno degli spogliatoi. Il direttore di gara intima loro di non commettere alcuna scorrettezza ai danni dei giocatori tedeschi e impone che prima della partita effettuino il saluto nazista. Le richieste, però, cadono nel vuoto.

Infatti, al loro ingresso in campo i giocatori ucraini invece del “Heil Hitler” urlano a gran voce “Fitzcult Hura!, il motto sovietico che adottato anche dall’esercito. La partita è fin da subito rude. La Flakelf è nettamente più forte delle altre compagini affrontate fin’ora dalla Start e passa rapidamente in vantaggio. Sembra finita, ma Kuz'menko pareggia con un bolide da fuori. Gli ucraini cominciano a fare sul serio e prima del duplice fischio trovano per altre due volte la via del gol con il piccolo Makar Hončarenko. Start 3 Flakelf 1. Sembra il realizzarsi di un sogno, ma durante l’intervallo nello spogliatoio della Start arriva un ufficiale tedesco con un interprete. I comandi sono semplici e chiari: i nazisti non possono permettersi di perdere la partita, e di conseguenza anche la faccia; se i giocatori della Start vincono moriranno tutti. Il secondo tempo, se possibile, diventa così ancora più difficile per gli ucraini: il caldo e la fatica, uniti alla paura, cominciano a farsi sentire. Come se non bastasse i tedeschi non lesinano in interventi durissimi ben consci di essere immuni da sanzioni. Nel giro di poco tempo la Flakelf raddrizza il match portandosi sul 3 a 3. È a questo punto che le sorti della partita prendono una piega definitiva. I giocatori della Start si guardano negli occhi, osservano il loro pubblico vessato dai soprusi nazisti e capiscono che c’è una sola da fare: vincere per loro, per dare una nuova speranza. Come affermerà anni dopo Hončarenko: «Non avevamo armi, ma avevamo la possibilità di lottare e vincere almeno sul campo; per la nostra bandiera, per la nostra Patria, per il popolo ucraino e i nazisti avrebbero potuto constatare che non sarebbe stato facile sottometterci e calpestare la nostra dignità». La squadra ucraina riprende a macinare gioco e annichilisce definitivamente la compagine tedesca. La partita finisce 5 a 3 per la Start. In campo e sugli spalti comincia la festa, ma non per i tedeschi. Più che la sconfitta, però, i capi dell’esercito non hanno digerito la mancata segnatura della sesta rete da parte di Klymenko, che, dopo aver saltato mezza squadra avversaria con una sontuosa azione personale, trovatosi a pochi passi dalla porta sguarnita si è voltato su se stesso e ha scagliato il pallone verso il centro del campo. Un gesto di sfida, di scherno, un segnale che su quel rettangolo verde i ruoli sono invertiti: i dominatori sono i vinti, e i vinti i dominatori.

Ha così inizio la rappresaglia. Il più forte di tutti, Mykola Korotkych, viene preso, torturato e fucilato poche ore dopo il triplice fischio. Nei mesi seguenti tutti i suoi compagni vengono arrestati e seviziati con l’accusa di essere informatori servizi segreti sovietici. Il destino dei membri della Start è uno solo: campo di concentramento. Degli undici scesi in campo in quella assolata domenica di agosto se ne salvano solo tre: Fedir Tjutčev, Mychajlo Svyrydovs'kyj e Makar Hončarenko. Ma per loro la vita non è semplice, secondo i funzionari sovietici aver giocato con i nazisti significa infatti aver collaborato con loro. I tre resteranno quindi in silenzio per anni.

La storia così si è fatta prima leggenda e poi mito. Negli ultimi anni sono state avanzate anche nuove versioni della vicenda. Versioni meno crude e brutali. Ma comunque sia andata veramente la partita, con tutte le sue eventuali conseguenze, la sostanza non cambia. Per capirlo basta fare un salto allo Stadio Olimpico di Kiev. Nelle vicinanze troverete due sculture, una raffigurante quattro giocatori della Start e una dedicata a Makar Hončarenko. In basso, a completamento delle opere, troverete incisi due laconici epitaffi. Parole soppesate, toccanti, a cui non serve aggiungere altro, perché ci sono momenti in cui il bene di tutti conta più del bene di un singolo:

«Per il nostro presente / sono morti nella lotta / la vostra gloria non si spegnerà, / eroi, atleti senza paura» e «A uno che se lo merita».

Chapeau!