di Davide Drago

In un clima di festa e di sport - tipico di quasi tutti i grandi eventi - è arrivato “il gesto” indicativo del nazionalismo in terra balcanica - e ci stupiamo sia arrivato così tardi - che ha rotto il clima di apparente tranquillità dei mondiali in Russia.

Quello che stiamo vedendo oggi nella ex Jugoslavia e nell' Europa dell' Est non ha niente a che vedere con i nazionalismi del movimento anticolonialista e neanche con le ispirazioni e le idee dei Grandi movimenti nazionali nell' Europa del XIX secolo. L'idea di unire tutti i membri di un'etnia nella Grande Serbia, Grande Croazia, Grande Albania, ecc. è il denominatore comune a tutti questi nazionalismi. La retorica che usano per spiegare le proprie pretese è così simile che ovviamente dietro c' è lo stesso sistema mentale e sociopatologico. La genesi di questi nazionalismi viene spesso imputata all' oppressione comunista dei sentimenti nazionali e questi, con il crollo del comunismo. Questa tesi nella sua essenza è mendace, soprattutto nel caso della ex Jugoslavia. Il rapporto tra comunismo e nazionalismo è diverso, la caduta dell' ideologia comunista creò all'epoca un vuoto “spirituale” che venne in fretta rimpiazzato da un' ideologia ancor più totalitaria per minimizzare gli effetti della disintegrazione del comunismo, ed il nazionalismo era il più adatto per tale compito. Il nazionalismo serbo è caratterizzato da una specie di odio atavico nei confronti di altre etnie e specialmente verso i croati, musulmani ed albanesi. Anche il mondo dello sport è stato sempre palcoscenico di quest'odio viscerale e anche durante questi mondiali di calcio il problema è tornato alla ribalta.

La partita tra Serbia e Svizzera non sarà ricordata per la rimonta messa a segno dalla compagine bianco-rossa, ma per l'esultanza di chi la vittoria l'ha costruita: Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri. Entrambi i giocatori, di origine kossovara, hanno festeggiato le rispettive reti mimando l'aquila bicipite, simbolo della bandiera albanese e del popolo kossovaro. Ovviamente è stato un gesto che non è passato inosservato soprattutto ai migliaia di serbi che affollavano gli spalti. Una provocazione nei confronti dei tifosi avversari, per la quale adesso la FIFA potrebbe anche prendere provvedimenti: in campo internazionale, infatti, la federazione osteggia da sempre e in maniera intransigente ogni tipo di messaggio, riferimento o esultanza di stampo politico e potrebbero scattare sanzioni o addirittura squalifiche. Proprio alla FIFA si è rivolto il presidente della Federcalcio serba Jovan Surbatovic, con un reclamo ufficiale, appellandosi al regolamento che bandisce la politica dalle manifestazioni sportive, facendo riferimento al gesto di esultanza dei due calciatori rossocrociati.

Due storie particolari, quelle di Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, che hanno espresso con la loro esultanza delle profonde motivazioni politiche e personali. Ragip Xhaka, papà del giocatore dell’Arsenal (e di Taulant Xhaka, che gioca per la nazionale albanese), è stato detenuto per tre anni e mezzo per motivi politici per aver partecipato a dimostrazioni contro il governo jugoslavo in Kosovo. Una volta uscito di prigione, è emigrato in Svizzera, dove sono sono nati i due fratelli. Shaqiri è nato in Kosovo, a Gjilan, prima che la sua famiglia si trasferisse in Svizzera, nel mezzo della guerra dei Balcani. Il suo attaccamento alla terra di origine è visibile anche dalla doppia bandiera presente sui suoi scarpini, uno dei motivi delle proteste della Serbia. Prima del Mondiale, l’attaccante dello Stoke City ha anche avuto un confronto piuttosto pesante con l’attaccante serbo Mitrovic, che aveva risposto in modo provocatorio a una foto postata dallo stesso Shaqiri su Instagram: “Se ami tanto il Kosovo, perché hai rifiutato di giocare per quella nazionale?”. Shaqiri è stato l’unico dei due giocatori in gol ad aver parlato dopo il match con la Serbia, ma alla domanda sul perché di quell'esultanza ha risposto dichiarando: “Preferirei non parlarne, diciamo che ero molto emozionato dopo aver segnato». L’ex attaccante dell’Inter fin dai tempi del Bayern Monaco usa celebrare le vittorie sventolando una bandiera per metà della Svizzera e per metà del Kosovo. Nessuna dichiarazione è per ora arrivata da parte di Xhaka, che in passato aveva discusso, con una lettera aperta, della sua volontà di giocare per il Kosovo, ma non di poterlo fare per aver già rappresentato la nazionale svizzera in competizioni ufficiali. 

Il capitano della Svizzera, Lichtsteiner,si è dichiarato a favore dell’esultanza dei suoi due compagni di squadra: «Xhaka e Shaqiri hanno fatto bene. I serbi ci stavano provocando da giorni e poi credo che le botte si danno e si prendono, e loro non sono angeli. Per me va bene. C’è stata una guerra durissima per molti genitori dei nostri giocatori. C’erano pressioni e provocazioni, quindi per me va tutto bene». Più equilibrato il CT Pektovic asserisce: «È chiaro che nel momento del gol un calciatore senta emozioni particolari. Però credo che tutti noi dobbiamo lasciare fuori la politica dal calcio».

Il gesto dell'aquila è stato solo un particolare di un clima già pesante che ha caratterizzato il pre e dopo Serbia-Svizzera. Una procedura disciplinare è stata aperta contro la Federazione serba e un'inchiesta preliminare nei confronti del commissario tecnico Mladen Krstajic, che a fine partita aveva accusato l'arbitro Felix Brich di "uso selettivo della Var" per aver negato un rigore su un presunto fallo in area rossocrociata. Poi se l’era cavata con un diplomatico: «Sono un uomo di calcio, non commento le decisioni dell’arbitro». Ma, non contento, ieri il tecnico ha scritto sul suo profilo Instagram una frase shock: «Purtroppo solo i serbi, a quanto pare, vengono condannati sulla base di una giustizia selettiva. Prima il maledetto Tribunale internazionale penale dell'Aja, oggi nel calcio il Var».

Luca Valdiserri, in un suo articolo del Corriere della Sera, ha ben inquadrato il il fulcro di quello che la partita ha lanciato come messaggio: «La strada per la vera pace e per il rispetto nei Balcani è ancora lunga e per percorrerla serviranno più uomini di buona volontà. Il mix di Serbia, Croazia e dei kossovari della Svizzera, al Mondiale di Russia 2018, ha portato a questo bilancio: il c.t. serbo che paragona la Var al tribunale dell’Aja per i genocidi nella ex Jugoslavia; tifosi serbi allo stadio di Kaliningrad con la felpa del generale Ratko Mladic, il macellaio di Srebrenica, condannato all’ergastolo il 22 novembre 2017; l’esultanza provocatoria di Xhaka e Shaqiri, con il gesto dell’Aquila bicipite, simbolo del progetto della Grande Albania, dopo il 2-1 inflitto dalla multietnica Svizzera alla Serbia; canzoni con frasi ustascia nello spogliatoio croato che festeggia la vittoria contro l’Argentina…».

La guerra in ex Jugoslavia e in Kossovo è finita da tempo, ma l'odio rimane e si percepisce anche nei campi da gioco. Quello della partita tra Serbia e Svizzera è solo l'ultimo caso che contrappone giocatori kossovari a quelli dell'ex Jugoslavia. Tanti sono stati i contrasti tra giocatori dei due paesi, anche nel basket, nella pallamano. Il più duro si è avuto durante la partita Serbia-Albania, valida per le qualificazioni a Euro 2016, il campo si trasformò in un terreno di battaglia, con una rissa che coinvolse giocatori, staff e tifosi perché sullo stadio si levò in volo un drone con la bandiera della Grande Albania e i volti di Isa Boletini e Ismail Qemaili.

Dopo la sanguinosa guerra fratricida, gli eccidi e la pace, lo sport ha continuato ad esercitare una spinta alla rivalità sedata ma non svanita. Le cicatrici di una guerra non scompaiono così, davanti a un trattato e a una linea di confine. I morti restano e le sofferenze anche. Intanto, a quasi vent'anni dalla conclusione del conflitto tra Serbia e Kossovo, i presidenti dei rispettivi paesi, Aleksandar Vucic e Hashim Thaci, hanno concordato di intensificare il lavoro per la completa normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi nelle prossime settimane.