di Davide Drago
Triplice fischio dell’arbitro e un altro mondiale di calcio è stato archiviato. Una competizione che ha visto ai nastri di partenza delle esclusioni importanti e che cammin facendo ha perso delle compagini nazionali di rilievo. Cosa rimarrà di questo mondiale? Cosa ricorderemo? La vittoria della Francia, forte sicuramente, ma con un pizzico di fortuna o il secondo e il terzo posto delle “piccole” Croazia e Belgio? Ai posteri l’ardua sentenza. Sicuramente a freddo si può ragionare meglio su alcuni eventi più o meno rilevanti che hanno caratterizzato la competizione mondiale.
A metà giugno scrivevo che sarebbe stato il mondiale del razzismo, dell’omofobia e della paura degli Hooligans. Ma tutto questo non ha rovinato lo spettacolo che Putin ha preparato in maniera oculata per l’intero pianeta. Come tutte le competizioni di carattere globale, questi eventi assumono un’importanza centrale anche negli equilibri politici dei vari paesi, e diventano la vetrina di quella nazione da presentare al mondo intero. Putin è stato bravo, ha raccolto la polvere e l’ha nascosta sotto il tappeto. Non ci sono stati incidenti tra gruppi ultras, né aggressioni (almeno denunciate), e all’interno degli stadi non ci sono stati dei chiari atti di stampo razzista. Sono stati i giocatori a far parlare di loro e non soltanto per le loro gesta sportive.
In Serbia-Svizzera più che ricordare il risultato finale ci rimarrà impressa l’esultanza di Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri. Entrambi i giocatori, di origine kossovara, hanno festeggiato le rispettive reti mimando l'aquila bicipite, simbolo della bandiera albanese e del popolo kossovaro. Anche Vida e Vukojevic, giocatore e accompagnatore della Croazia, più che concentrarsi sulla loro vittoria hanno preferito esaltare l’eliminazione della Russia inneggiando all’Ucraina con il motto “Slava Ukraini” (Gloria all’Ucraina), slogan utilizzato dagli ucraini in chiave anti-russa durante la guerra del Donbass nel 2014 contro l’annessione della Crimea. Questi due eventi ci ricordano ancora una volta, se mai fosse necessario, quanto il legame tra calcio e politica sia stretto.
Forse verranno ricordati con più simpatia gli atleti del Giappone. Dopo l’eliminazione contro il Belgio i giocatori nipponici si sono armati di buona volontà e hanno ripulito lo spogliatoio, rendendolo “splendente” come mostra un’immagine che ha fatto il giro sui social e hanno addirittura lasciato un cartello con scritto in russo “Grazie”. Anche i loro tifosi non si sono fatti pervadere dalla delusione della sconfitta e hanno ripulito gli spalti dall’immondizia che avevano lasciato soprattutto per realizzare una simpatica coreografia dei famosissimi Holly e Benji. I tifosi del Senegal dopo aver festeggiato la vittoria, anche un po' a sorpresa contro la Polonia, hanno raccolto la spazzatura che si era formata sulle tribune. Due gesti di civiltà molto semplici che hanno fatto parlare molto più dei risultati delle loro squadre. Non tanto civili sono stati i tifosi dell’Inghilterra. La squadra non arrivava in semifinale dal 1990, ed evidentemente la frustrazione accumulata dai tifosi era arrivata ormai ai limiti. Subito dopo il triplice fischio dell’arbitro che ha sigillato il trionfo della nazionale inglese contro la Svezia, migliaia di supporters inglesi si sono riversati nelle strade per festeggiare. Si sono viste scene di ogni tipo; a Londra alcuni tifosi hanno pensato di sfogare la loro gioia prendendo di mira uno dei simboli della Svezia nel mondo: Ikea. Sicuramente non voleva essere né un’azione di esproprio proletario, ma neanche un attacco a uno dei simboli del capitalismo e della globalizzazione. Più un’azione “goliardica” e anche un po' fuori luogo. I tifosi anglosassoni hanno messo in scena una lotta coi cuscini e devastato alcune parti del negozio.
Gli inglesi, però, non hanno potuto ripetere nessuna festa goliardica, dato che la semifinale l’hanno persa contro la “piccola” compagine croata, che il 15 luglio ha giocato la sua prima finale della storia contro la Francia. È stata proprio la finale a far accendere i riflettori sul mondiale di Russia e non per gli aspetti calcistici, ma soprattutto per quello che ultimamente sta accadendo in Europa. Si è scritto e detto di tutto su questa sfida, ma la frase più comune è stata: “è la finale tra i nazionalisti croati e il modello multiculturale francese”. Etichettare cosi i due paesi che si sono affrontati in finale è come sostenere che i tedeschi siano tutti nazisti e gli italiani soltanto mafiosi. E dire che a vincere il mondiale sia stato il “modello francese” del melting-pot è banalizzare una situazione sociale e politica molto più complessa.
La Croazia è un paese di 4,2 milioni di abitanti e lo sport è stato sempre il pilastro fondamentale di questa giovane nazione. Esistono migliaia di club sportivi vincenti in varie discipline come la pallanuoto, la pallamano, il basket, molti dei quali sono eredità dei competitivi e fruttuosi programmi sportivi dei tempi dell’ex Jugoslavia. Il calcio come spesso accade ha una storia a sé che si integra pienamente con il substrato sociale. I disordini scoppiati nel 1990 allo stadio Maksimir di Zagabria causarono l’interruzione di una partita tra la Dinamo e la Stella Rossa di Belgrado e segnarono, per molti croati, l’inizio di una guerra che portò alla secessione del loro paese. Durante un’altra partita di calcio, tra Hajduk Spalato e Partizan Belgrado, nel settembre 1990, gli ultrà della prima, noti come Torcida, bruciarono la bandiera jugoslava urlando “Croazia, stato indipendente”. Nel 1998, quando la Croazia finì terza ai Mondiali di Francia, in maniera inaspettata per tutti tranne che per i suoi sfegatati tifosi, Boban, il capitano della squadra ed eroe nazionale, lodò Tudjman come il “padre di tutte le cose che noi croati amiamo, e padre anche della nostra squadra nazionale”. Tudjman centralizzò la gestione del calcio, talvolta addirittura interferendo personalmente nelle decisioni dell’allenatore. Per lui il calcio era un’arma e uno strumento per costruire un’identità nazionale rivolta al consumo domestico e a un mondo non particolarmente interessato a distinguere tra gli stati “ex jugoslavi”.
Le storia di Danijel Subasic, di padre serbo-ortodosso e di madre croata -cattolica, e l’infanzia di Luka Modric che ha visto la guerra da vicino con l’uccisione del nonno e l’abbandono della propria città natia ci devono far riflettere su quanto sia importante conoscere davvero un popolo, anche con le proprie contraddizioni, e pensare che la storia di un territorio la costruiscono le comunità che la vivono e non le “nazioni”. Se la Croazia fosse davvero stata identitaria e nazionalista non avrebbe permesso ad un portiere mezzo serbo di difendere la propria porta.
La squadra che ha vinto è stata definita un perfetto esempio di melting-pot. La nazionale allenata dal c.t. Deschamps è composta da ben 17 giocatori di origine extra-francesi su 23. Non una novità per i Blues che, a partire dagli anni novanta, hanno convocato calciatori provenienti da ogni parte del mondo, soprattutto territori d'oltremare e Stati riconducibili al suo vecchio impero coloniale. Deschamps ha fine partita ha dichiarato: «La Francia è campione del mondo: significa che abbiamo fatto meglio degli altri. La nostra squadra è giovane, ma la qualità c'era e ha inciso. Sono orgoglioso che i miei giocatori abbiano mantenuto la stessa mentalità vincente durante tutto il torneo - continua il ct -. Certo, ci sono imperfezioni, e anche oggi non abbiamo fatto tutto giusto». Per il modo del web quelle “imperfezioni” sarebbero costituite dai giocatori di origine straniera. La nazionale di calcio, multietnica, è ovviamente finita tra le critiche dei tanti razzisti con frasi del tipo: "Non ha vinto la Francia, ma l'Africa". Peccato che l’Africa non abbia vinto proprio nulla e anzi le squadre africane siano uscite di scena troppo presto dal mondiale. In un articolo di qualche settimana fa ne abbiamo analizzato i motivi; la questione sicuramente più d’impatto è stata affrontata da Luca Pisapia in un articolo del 2012 pubblicato sul “Fatto Quotidiano” dal titolo “Giovani calciatori africani strappati alle famiglie: la nuova tratta degli schiavi”. Problema, che come afferma anche oggi Pisapia, è presente tutt’ora, e si capisce come possa anche essere un impedimento per la crescita del calcio africano. Sarebbero decine di migliaia i calciatori che dall’Africa vengono adescati da falsi procuratori che poi finiscono nei paesi occidentali senza alcun tipo di occupazione o futuro, ingannati dalla falsa promessa di diventare stelle del calcio. In Africa, anche nel calcio, la logica del profitto ed espoliazione giocano un ruolo non indifferente per far andare storte le cose. Ma tornando alla finale e alla vincitrice di quest’ultimo campionato del mondo, sorgono alcune domande, anche ovvie. La Francia è un esempio di multiculturalità? È un paese accogliente? Macron che chiude i confini a Ventimiglia è un esempio da seguire? Vale lo stesso discorso fatto per la Croazia. Non si possono banalizzare le politiche di un paese e non si possono analizzare in maniera frettolosa aspetti sociali e antropologici di una nazione. Nel caso francese mi verrebbe da dire che non è tutto oro quello che luccica. La società francese è lo specchio della nazionale di calcio? Quanti sono i francesi che pur avendo gentitori “stranieri” sono riusciti a raggiungere nel sistema sociale e politico francese dei ruoli paragonabili ai giocatori che hanno vinto il mondiale? Pochi, molto pochi. Per definire uno stato come un esempio da seguire, non basta che vi abitino tanti stranieri e non basta la vittoria di un campionato del mondo di calcio.
Gli scontri di Parigi, di Lione e, in misura minore, a Rouen e Menton sono da paragonare alla goliardia inglese o i “casseur” che hanno fatto esplodere la propria rabbia hanno delle motivazioni simili a chi qualche anno fa ha messo a ferro e fuoco le banlieu? È più probabile che sia soltanto una coda della contestazione che sta accompagnando Macron e le sue politiche in questi ultimi mesi. Le immagini dell'esultanza “scomposta” di Emmanuel Macron, sia in tribuna che negli spogliatoi, in cui insieme a Paul Pogba e Benjamin Mendy, ballano la cosiddetta Dab Dance, non avrà fatto fare salti di gioia agli studenti e agli impiegati del settore pubblico che in questi mesi lo hanno contestato e hanno ricevuto una repressione molto forte.
Il mondiale è finito: la Francia ha vinto, la Croazia avrà tanto da recriminare su come è avvenuta la sconfitta. Il dibattito su nazionalismi, populismo e multiculturalità ci accompagnerà ancora a lungo. La sorpresa però è arrivata all’inizio del secondo tempo; quando per Putin sembrava che tutto fosse andato totalmente liscio sono arrivate loro: le Pussy Riot. Con la loro invasione di campo hanno chiesto la liberazione di tutti i detenuti politici in Russia e hanno ricordato al mondo intero chi è Putin. Il triplice fischio finale e la coppa alzata al cielo hanno fatto calare il sipario su questo spettacolo: lo show è finito. Se ne sta già preparando un altro per il 2022 in Qatar, sarà sicuramente uno spettacolo ancora più surreale, in cui si farà maggiore attenzione all'apparire più che all'essenza stessa del mondiale che dovrebbe essere il calcio, aspetto che in questo mondo globalizzato è sempre più in secondo piano.