Abbiamo parlato diffusamente della protesta dell’ex trequartista dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick su Sportallarovescia.it , del suo “taking a knee”, inginocchiarsi, durante l’esecuzione dell’inno americano durante le partite della Nfl in segno di protesta contro i morti dei neri – americani per mano della polizia, quindi le ingiustizie razziali, in un contesto di razzismo istituzionale

; e poi le reazioni dei big della politica come il presidente Usa Trump, o anche un tweet avverso a lui e la sua protesta inviato da parte del Pentagono, e poi il coinvolgimento e la solidarietà nella protesta da parte di atleti del calcio, del basket e soprattutto ovviamente di altre squadre del football americano, senza dimenticare le donazioni di Kap per i bisognosi o la scuola per i diritti dei giovani afro – americani da lui fondata a San Francisco. Difficilmente avremmo pensato a questo punto di dover osservare e fare delle considerazioni sulla sua interpretazione da protagonista di uno spot della Nike dal nome “Dream Crazy”, diffuso agli inizi di settembre, dai contenuti anti – razzisti ed a favore delle diversità. Come ha scritto Alan Brandshaw nell’articolo scritto per Frieze.com, l’incontro tra Nike e Colin Kaepernick non è proprio casuale: dall’inizio della protesta del Kap infatti, le ricerche hanno dimostrato un incremento del 31% delle vendite online delle sue scarpe e vestiti da football. Nello stesso articolo dal titolo “ From the Beatles to Colin Kaepernick: a Brief History of Nike’s ‘Wokewashing’”, l’inserimento di contenuti di carattere sociale nelle pubblicità della Nike hanno una lunga storia, come ad esempio nel caso della pubblicizzazione dell’atleta sieropositivo Ric Munoz avvenuta nel 1995, anno in cui la Nike portava avanti una campagna dal titolo “If you let me play”, nella quale promuoveva della partecipazione femminile allo sport. Altro riferimento, quello nella campagna pubblicitaria del 1987 della Nike in cui venne utilizzata la canzone dei Beatles “Revolution”. E ce ne sono state altre di queste campagne, come quella anti – razzista “Stand up – speak up” di cui fu protagonista Terry Henry nel 2005 ad esempio, contro i sempre più frequenti episodi di razzismo negli stadi europei registrati in quel periodo. Su questa questione nessun testo però risulta essere superiore, soprattutto sul piano dell’analisi, a “No Logo” di Naomi Klein, pubblicato nel 2000. Nel capitolo “Il Patriarcato diventa Funky”, parla di come gli studenti come lei dei campus universitari a fine anni novanta si preoccupavano molto di questioni legate a quella che doveva essere una giusta rappresentazione della questione femminile, dei gay, dei neri, dei sieropositivi, nei media, dimenticandosi completamente delle questioni di tipo economico – sociale, ed inseguendo le rappresentazioni del mondo della comunicazione. Come si legge: “Sui muri della Nike Town apparvero così frasi di Tiger Woods del tipo: “ Ci sono ancora dei campi negli Stati Uniti in cui non posso giocare per il colore della mia pelle”. Con montaggi, effetti e sequenze di immagini sensazionali, insieme a sottofondi musicali come i Beatles o Philip Glass, gli spot Nike rappresentano delle vere e proprie opere d’arte apprezzabili. Ma soprattutto, in un contesto in cui si sta sempre più diffondendo in Usa come in Europa una cultura razzista e xenofoba, uno spot con contenuti anti – razzisti promosso da un icona della lotta all’ingiustizia razziale come Kaepernick, non risulta alla fin fine essere un qualcosa di positivo? Se si vanno a vedere i contenuti del video, rintracciabili nelle parole spiccicate dal giocatore dei San Francisco 49ers, qualche perplessità emerge. In “Dream Crazy” Kaepernick sciorina molti dei contenuti presenti nelle pubblicità dei prodotti di oggi, ovvero quello di uno sperticato individualismo e di una competizione senza limiti. Nel video ad esempio dice: “Se sei un rifugiato politico, non lasciare che questo ti impedisca di essere un giocatore della tua squadra di nazionale di calcio”. Insomma, come diceva poco tempo fa un altro celebre marchio, l’Adidas, “Nothing is impossibile”, giusto? Ed ecco che scorrono le immagini di Alphonso Davies, rifugiato africano che ora gioca per la nazionale canadese.

“E se sei una ragazza di Compton, non divenire una giocatrice di tennis e basta. Diventa la più grande atleta di sempre” . E di seguito le immagini di Serena Williams. Si attinge ad una serie di narrazioni e linguaggi che fanno parte ampiamente della cultura generale mainstream: ad esempio, durante gli ultimi mondiali di calcio di Russia 2018 si è insistito molto sul racconto di giocatori come Mbappè o Modric, a proposito del fatto che questi erano cresciuti in contesti difficili di vita da bambini, ma che poi ce l’hanno fatta. Come si leggeva in un articolo pubblicato lo scorso 20 luglio su “Idiavoli.com”, dal titolo “Il calcio e le banlieu dimenticate”, non ha molto senso celebrare la riuscita personale di un singolo giocatore se questo non serve a far crescere collettivamente l’ambiente difficile in cui esso e’ nato. O come ha detto Ivan Ergic, l’ex capitano della squadra di calcio del Basilea di origini serbe, per un’intervista a Sportallarovescia.it poco tempo fa: “Ci sono statistiche che dimostrano che per ogni giocatore di calcio che riesce a farcela, ci sono circa 12 000 che non ce la fanno. E a nessuno importa di loro, sono totalmente sconosciuti per la società, solo perché «il vincitore prende tutto»". Il rischio è proprio invece di sancire una certa condizione, dicendo: se non sei ad un certo livello, vuol dire che personalmente non ti sei impegnato abbastanza, non hai avuto abbastanza forza di volontà. Le condizioni sociali, come quella del capitalismo sfruttatore, svaniscono nel nulla. Meglio pensare di diventare “i più grandi atleti di sempre”, o se sei un rifugiato, punta tutto solo sulla tua forza di volontà e la tua potenza personale. Chissà cosa pensare allora di quei bambini che nel 1996, citati nel libro “No Logo” di Naomi Klein, vivevano pagati meno di 6 centesimi all’ora cucendo palloni da calcio con il simbolo Nike, passando la loro infanzia ricurvi su una sfera di cuoio. Sarebbe bastata solo la loro volontà individuale a migliorarli da quella condizione ovviamente. Bene, lo spot della Nike che ha avuto come protagonista Kapernick è stato un inno alla competizione individualista: e questa volta Kap non si è inginocchiato, ma è stato in piedi con la mano sul cuore. Parafrasando il celebre slogan della marca con il baffo americana, “Just do it”, “Fallo”, bhè, era meglio che non lo faceva.