di Teo Molin Fop
“Il Calcio sta diventando uno sport da ricchi, come poteva essere una volta il tennis”.
Questa frase non esce da un comunicato di una delle polisportive antirazziste di Sport Alla Rovescia: sono le parole pronunciate durante il Galà del Calcio del Triveneto da Simone Perrotta, ex-centrocampista degli azzurri campioni del mondo a Berlino e ora Vicepresidente del Settore Giovanile Scolastico della Figc. Anche se fa riferimento alle cifre da pagare per far entrare i bambini nelle scuole-calcio, sicuramente questa dichiarazione può essere il punto di partenza per una riflessione su una problematica enorme: l'accesso, la gestione e i costi degli impianti sportivi.
Garantire il diritto allo sport non significa solo modificare i regolamenti discriminatori verso alcune determinate categorie di persone, ma significa anche garantire a tutti la possibilità di poterlo praticare in strutture adeguate e a costi sostenibili per tutte le associazioni sportive.
Il problema non è solo quello della condizione, dello stato di salute o della carenza di impianti, ma è anche quello di ottenere uno spazio dove allenarsi e disputare le proprie gare.
Partiamo ad esempio dal calcio. Tranne quelli privati e parrocchiali, la maggior parte dei campi è di proprietà pubblica, in genere comunale. Dovrebbero essere a disposizione di tutti, un bene comune quindi. Purtroppo nella realtà non è sempre così. Infatti la gestione dei campi viene data alle società sportive mediante bando (ovviamente al ribasso) e stipulazione di una relativa concessione. Anche se ogni città ha la sua specificità e storia, molto spesso questa procedura non è limpida. Sulla gestione degli impianti sportivi si gioca molte volte una partita che mette in palio scambio di voti, finanziamenti, rapporti lobbistici oppure consolidati con le società storiche o più potenti, che di fatto gestiscono in modo “privatistico” e lucrativo gli impianti. In alcuni casi addirittura monopolistico, come ad esempio a Rimini, dove 9 su 10 campi comunali sono gestiti da un'unica società sportiva. Ovviamente si prendono gli orari più comodi e più utili per i loro allenamenti e il resto viene lasciato alle altre società che non hanno strutture proprie. Quindi, alla fine di ogni estate i tavoli convocati dai Comuni per la suddivisione degli orari dei campi sono una farsa, in cui come nella giungla, vince la legge del più forte. Comunque non sempre gli enti locali svolgono questa funzione di controllo e di garanzia di un'equa assegnazione e la decisione viene esercitata direttamente dai gestori degli impianti. A essere più penalizzate da questo meccanismo sono le squadre amatoriali. Per esempio a Parma quando piove, a prescindere dalle condizioni dei singoli campi il Comune sospende e rinvia tutte le partite del campionato amatoriale, causando uno stop forzato alle attività di queste esperienze.
Per risolvere questa problematica sono necessari maggiori investimenti, ma in questo momento di crisi economica e di tagli di trasferimenti agli enti locali, i bilanci comunali vedono una netta riduzione di fondi per lo sport. Oltre al bisogno insoddisfatto di nuovi campi, peggiora la condizione di quelli esistenti con sempre minore manutenzione fino ad arrivare anche all'abbandono di centri sportivi nei casi più estremi. C'è una contraddizione evidente tra una grande richiesta di campi non soddisfatta interamente e l'inutilizzo di strutture lasciate chiuse e al lento degrado.
Un altro ordine di problema è che, una volta trovato e ottenuto un campo comunale, i costi di affitto per gli allenamenti e le partite incidono pesantemente sui bilanci delle squadre. Sono la voce più consistente. Ad Ancona ad esempio può capitare di pagare 800 euro al mese per allenarsi due volte alla settimana e farsi pure la doccia regolarmente ghiacciata. Gli alti costi per l'affitto dei campi rappresentano una seria minaccia per la sopravvivenza delle piccole squadre di quartiere o per le realtà che svolgono un'importante funzione sociale di accoglienza, integrazione e lotta contro il razzismo e le discriminazioni.
E' urgente ripensare una politica di interventi che non metta sullo stesso piano chi produce sport per business e chi si impegna per la costruzione di uno sport aperto e veramente accessibile a tutti. Ad esempio, ove possibile, bisognerebbe aprire un ragionamento sulla riqualificazione (anche dal basso)dei campi abbandonati e metterli a disposizione per le società che ne hanno bisogno. Un'altra proposta concreta potrebbe essere quella di fissare una tariffa di affitto agevolata, come sostegno e riconoscimento di quelle esperienze in prima linea per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza, accessibilità e lealtà nello sport.
Nella foto i lavori di riqualificazione di un campo abbandonato a Rimini, occupato da Autside Rimini Football Club quest'estate