di Davide Drago
In queste settimane nel mondo del calcio, soprattutto italiano, tante sono state le emozioni, le novità, i cambi di rotta. Dall'elezione di Miccichè, al clamoroso passaggio del turno della Roma in Champions League, all'eliminazione della Juve con tutto lo strascico di polemiche per le parole di Buffon, al momento di stallo per quanto concerne la “partita” milionaria dei diritti tv.
Tutti eventi che sono ben lontani dal calcio inteso come gioco, sogno, bellezza. Situazioni che fanno allontanare il calcio da quel modello di linguaggio comune, di modo per riconoscersi e ritrovarsi. Il calcio che non deve cedere alle lusinghe dei potenti, di chi vuole trasformarlo in strumento per produrre denaro, uccidendo la fantasia e l’innocenza di quel gioco che non ha età, nazionalità, ceto sociale.
Queste “storie” molto diverse tra loro mi hanno fatto ritornare in mente un bel libro scritto qualche anno fa da Galeano: «Splendori e miserie del gioco del calcio».
Eduardo Galeano, nato a Montevideo il 3 settembre del 1940 è stato uno degli scrittori e giornalisti più autorevoli e stimanti della letteratura latinoamericana. È stato definito uno scrittore del silenzio, dove gli altri omettevano c’era lui, dove gli altri dimenticavano arrivava lui, non se ne può parlare come solo di uno scrittore uruguayano ma se ne deve parlare come di uno scrittore dell’intera America del Sud, perché ha sempre ragionato in termini ampi, estirpando le storie dall’intera e composita natura del continente sudamericano.
Come la maggior parte dei sud americani era un tifoso appassionato e soprattutto aveva un sogno comune a tutti i ragazzini dell'epoca: diventare un calciatore. In un suo saggio scriveva: «Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese».
«Splendori e miserie del gioco del calcio» è un insieme di racconti, ricordi e appunti, aggiornati fino agli ultimi anni della sua vita, sono la celebrazione del mondo che gira intorno al pallone, dei suoi protagonisti di ieri e di oggi: i tifosi in eterno pellegrinaggio verso lo stadio; Pelé esultante per il suo millesimo gol al Maracaná; il portiere che, con un solo errore, perde il campionato; Maradona che, con due gol inflitti all'Inghilterra, di cui uno di mano, vendica l'orgoglio argentino ferito a morte alle Malvine. Galeano non nasconde gli aspetti meno luminosi di uno sport che è anche un lucroso affare.
Cita la Coppa del mondo in Argentina nel 1978, nel tempo triste e crudele di Videla, dei desaparecidos, delle mamme di plaza de mayo. Mentre allo stadio Monumental di Buenos Aires si inaugurava il mondiale, a pochi passi da lì era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di meccanica dell’esercito. E alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare.
Il Sudamerica è il continente delle laceranti contraddizioni, dove il football diventa metafora della vita: sentimenti e ribellioni si celano dietro un dribbling, un gol, un gesto estetico. I grandi scrittori sudamericani hanno spesso utilizzato il pallone per raccontare i disagi del quotidiano, per denunciare le malefatte di politici e militari senza scrupoli, per mettere a nudo, con malinconica ironia, il malessere della società.
Il calcio è in grado di diventare simbolo della giustizia, mezzo per esprimere il disagio di vivere, per condannare la violenza e l’oppressione. Gli scrittori sudamericani si sono impossessati, con “letteraria abilità” del pallone.
Eduardo Galeano raccoglie tutte queste denunce, tutti questi concetti in «Splendori e miserie», muovendosi su due piani narrativi: da una parte, il pallone come mistero agonistico e galleria di assi; dall’altra, il pallone come fenomeno culturale e sociale, come territorio ambito dai potenti per le loro ciniche scorribande politiche e finanziarie.
Diceva che quando il buon calcio si manifestava, rendeva grazie per il miracolo e non gli importava nulla di quale era il club o il paese che gli offriva questo dono, questa bellezza. Galeano, anche come tifoso (secondo la sua idea) lasciava a desiderare; tifava per il Nacional, ma quando, un giorno, la sua squadra giocava contro la grande rivale Peñarol disse che era follia non rimanere estasiati dai «passaggi magistrali di Schiaffino che orchestrava il gioco della squadra come se stesse osservando il campo dal punto più alto della torre dello stadio, ed el Pardo Abbadie faceva scorrere la palla sulla linea bianca laterale e si lanciava con gli stivali delle sette leghe distendendosi senza sfiorare il pallone né toccare i propri avversari».
A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria del giocare per giocare. «Il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e forza, che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro l’avventura proibita della libertà».
Nel libro di Galeano ce ne sono, di sfacciati con la “faccia sporca”, di campioni senza età e senza tempo, come Artur Friedenreich o come lo stesso Diego Armando Maradona che «giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto». Ma la grandezza dello scrittore uruguagio sta nel fatto di schierare, in un ideale campo che è poi la vita, personaggi molto diversi tra loro, ma uniti da quel filo conduttore che è il pallone: Salvador Allende e Humphrey Bogart, Roberto Baggio e Henry Kissinger, Pier Paolo Pasolini e Marilyn Monroe, Karl Marx e Benito Mussolini, René Higuita e Adolf Hitler. E al termine del match, resta il calcio, mistero senza fine del bello. Come ci indica Galeano: «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia».
Oggi il calcio agli alti livelli, nonostante qualche voce fuori dal coro, ha ben poco di quella sana follia a cui faceva riferimento Galeano; gran parte delle società sono quotate in borsa, i calciatori sono divi al pari di attori o cantanti. Il calciatore moderno incarna perfettamente il narcisismo tipico della società dei consumi. Il gioco si è trasformato in un business nel quale vengono mischiati interessi economici e politici. Bisognerebbe inseguire a tutti i costi la valenza sociale del calcio, un modo per conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie potenzialità, bisognerebbe tornare a quella sana follia del gioco, alla sua imprevedibilità e al suo sano spettacolo.