In un battibaleno, 104 anni di storia calcistica padovana e una parte importante della storia del calcio in Italia è scomparsa. Con la fine per collasso da debiti del Calcio Padova scompare un pezzo di storia della città e a poco serve il balletto di incontri di questi giorni di nuovi imprenditori con il Sindaco Bitonci per garantire la presenza di una nuova società recuperata dal mucchietto di cocci lasciato che possa partecipare al campionato di serie D – previo consenso della Figc – a nascondere la cesura prodotta nella storia calcistica cittadina con il Padova che è stato quello di Nereo Rocco e del catenaccio.

 

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Non è solo il calcio, o meglio è il calcio. Accostare la morte di Ciro Esposito con l'ennesimo fallimento della spedizione azzurra alla Coppa del Mondo può sembrare un azzardo, una mancanza di sensibilità e tatto. Invece quello a cui abbiamo assistito dal 3 Maggio a oggi non è altro che la sintesi chiara delle condizioni in cui è messo il calcio italiano. Stadi vuoti e fatiscenti frutto di speculazioni e ruberie (Italia ’90…), militarizzazione e leggi repressive ai danni dei pochi che allo stadio vorrebbero ancora andare, un campionato di basso livello che solitamente a Gennaio è già finito. Le scommesse e le partite combinate. E i morti, come Ciro Esposito appunto. Il calcio, chi lo governa, non ha mai saputo da solo creare un sistema di autodifesa da qualsiasi negativo agente esterno. E’ autoreferenziale e chiuso in se stesso. Razzista, lo dimostra ogni giorno di più, sessista e precluso alle voci fuori dal coro. Si difende come un circolo chiuso, una proprietà privata. Ma è anche inutile aprire qui l’elenco delle nefandezze e degli errori compiuti in questi anni arrancando coi decreti di emergenza miranti a tamponare falle incolmabili. Orrori.

Per rispetto a Ciro e all'intelligenza di tutti non torniamo sul fatto che un nazista va in giro armato dopo essersi creato proprio grazie al calcio una "nuova" identità. Un pò come i gerarchi dei regimi latino americani che si riciclano nelle federazioni sportive. La voglia di un calcio includente, che non si domanda da dove e di che genere sia chi lo pratica, un calcio che ogni domenica è realtà nei campi di Lecce e Firenze, Roma ed Ancona, Padova e Vicenza, Bologna e Napoli, Genova, Taranto e un sacco di altre città è più che una realtà. Il proliferare di polisportive popolari e squadre è la risposta a uno sport che non ha più un futuro se non questo e che si trincera in fortezze militarizzate dove perfino il racconto di ciò che accade è omertoso. Dove si cerca di mostrare ciò che non è, con la faccia tosta di chi sa che tanto va bene così. Media collusi con un sistema che si auto alimenta, si commenta e si processa da solo. Ma al lunedì soltanto, s’intende.

Il calcio che vogliamo noi è di parte. Partigiano anzi. Perché resiste e contrattacca, rilancia e propone alternative possibili, vere, che sono destinate a crescere e proliferare. Questo è lo sport vero, altro che…Se pensiamo poi che gli sport olimpici sono in mano alle forze armate, che il CONI è un baraccone e che lo sport italiano è legato alla stessa gente da sempre rimane una sola strada percorribile: que se vayan todos.

E capiamoci, è la morte di Ciro che inesorabilmente indica di che malattia è vittima il Dio pallone, non l’uscita da un mondiale.

Era la prima settimana di maggio e con “E' tempo di Fair Play Finanziario” abbiamo introdotto questo nuovo argomento tanto discusso quanto ancora non ben chiaro a tutti, siamo quasi a fine giugno e qualcosa è cambiato, con l'arrivo delle temperature torride sono anche cadute le prime teste dei famigerati “nemici” del Fair Play Finanziario, o almeno così sembra.

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Ad Amburgo la giornata di sabato 31 maggio all'interno dell'Antira Tournament è stata programmata senza partite del torneo di calcio, così si è potuto dedicare un intero giorno a parlare di forme ed espressione di intervento nelle situazioni delle varie realtà presenti, tramite la formula del workshop. Poi la domenica pomeriggio ha visto Alerta Network discutere del futuro del torneo e della crescita di prospettive di lavoro. Sportallarovescia ha partecipato ai lavori del dibattito sulla problematica dei rifugiati e sull'antifascismo nelle curve.

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A qualcuno succede a 6 anni, a qualcuno a 4, a me è successo a 3 anni. Cosa? Riuscire ad andare in bicicletta senza rotelle.

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“Kein Fussball den Faschisten”.

Questa è la scritta a caratteri cubitali che trovate su una delle due tribune, quando entrate all'interno del Millerntor, lo stadio del Sankt Pauli. Per un momento provate a cancellare dalla vostra mente recinzioni, reti divisorie, tornelli, tessere del tifoso, presidenti affaristi ed ululati razzisti e provate ad immaginare che i tifosi siano una parte fondamentale attiva di un club e che tra la squadra e il quartiere ci sia un legame talmente forte da diventare veramente un bene comune della comunità.

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Quando parli di ciclismo e pensi ai sassi, alle pietre, pensi a quelle ben piantate a terra della Parigi Roubaix. Quelle che quando arrivi ti fanno male le mani e la schiena per le vibrazioni, quelle che ti costringono a passare sul bordo della strada e causano cadute e forature a ripetizione.

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C’è uno sport che chi è abituato a considerare le strade e le piazze come specchio della situazione sociale ed economica del paese non dovrebbe mai sottovalutare. E’ lo sport che fino agli anni ’60 è stato il più popolare in Italia (sì, anche più del calcio), quello povero per antonomasia, quello della fatica: il ciclismo.

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“Mi piacciono le cose eque, poter contare solo sulle mie forze, mi piace giocare ad armi pari. Non voglio vincere perché ho più risorse, ma perché sono più bravo. Sentirsi più bravi è molto più bello che vincere e basta.”
(Paolo Ciabattini)

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